«Allevando suini allo stato brado non soltanto tuteliamo la tradizione e un’antica genetica italiana, ma sosteniamo anche la protezione del territorio». Così Giuseppe Signoriello, allevatore di Irsina (Mt), ci accoglie nella sua azienda, spersa tra colli gialli, per le stoppie di grano, e neri, purtroppo, per gli incendi che nella terribile estate del 2021 hanno interessato anche queste zone. «Vedete che scempio? Tutto quel versante è bruciato e lo stesso è successo a valle. Ma le fiamme si sono fermate giusto dove comincia la recinzione dei suini. Per che motivo secondo voi? Perché gli animali, pascolando nel sottobosco, ripuliscono il terreno e tolgono al fuoco il materiale di propagazione». Da quanto possiamo vedere, Signoriello ha ragione: i terreni anneriti si esauriscono giusto dove iniziano i cinque ettari recintati che rappresentano lo spazio all’aperto dei suoi animali. E dunque, in assenza di altre spiegazioni, registriamo la funzione di preservazione del territorio svolta dai suini e occupiamoci, appunto, di questi ultimi.
Nero lucano, recupero in corso
Siamo in provincia di Matera e dunque gli appassionati di razze autoctone avranno già capito che ci occupiamo del suino Nero lucano, un tipo genetico autoctono antico (Tgaa, in sigla) della razza Apulo calabrese.
L’avventura che ha portato al suo recupero iniziò 21 anni fa e Signoriello fu tra i primi ad aderirvi, alla fine del decennio scorso, assieme al suo socio Piero De Muro. Oggi è uno dei più grandi allevatori di questo suino, grazie a una mandria di 40 riproduttori per circa 250 animali complessivi, nonché presidente del Consorzio di tutela del suino Nero Lucano, nato nel 2013 su iniziativa degli allevatori custodi della razza. «Creammo dapprima un’associazione per sostenerci l’un l’altro e valorizzare questo animale, ma successivamente decidemmo di trasformarla in consorzio di tutela. Negli anni la sua attività si è un po’ arenata e diversi dei soci originari hanno smesso di allevare i suini lucani. Tuttavia altre aziende sono entrate nel circuito, per cui a breve ridaremo slancio al consorzio con l’ingresso di nuovi associati. Che continueranno così a essere una dozzina, come in origine», ci spiega Signoriello.
Tornando al nostro Nero lucano, possiamo dire che è una sotto-variante dell’Apulo calabrese, da cui si distingue per un’altezza maggiore e forme più slanciate, oltre che per le orecchie leggermente meno pendule. Signoriello lo alleva da ormai 12 anni. «Come gli altri custodi, ricevetti quattro scrofe e un verro al termine del progetto di recupero realizzato da Regione, Anas e università della Basilicata. All’inizio del millennio si decise infatti di salvare dall’estinzione il Nero lucano; cosa che purtroppo non fu possibile fare per la Cavallina, probabilmente la razza autoctona più diffusa, in passato, in Lucania. Furono trovati alcuni esemplari di Nero Lucano nel parco naturale di Gallipoli-Cognata. Il consorzio di enti li acquistò e moltiplicò e quando arrivò a un numero sufficiente li cedette ai privati, tra cui noi».
«Ai tempi la nostra azienda agricola era, lo confesso, in difficoltà: ovini e bovini non erano redditizi, in questo ambiente svantaggiato, e i prezzi dei cereali non erano altissimi. Il suino autoctono ci sembrò la soluzione ideale, anche perché, personalmente, ho sempre creduto nella valorizzazione della tipicità e nella differenziazione. In aree difficili come queste è impensabile competere con l’allevamento intensivo; l’unica strada è fare qualcosa di completamente diverso e soprattutto di “nostro”. Usammo così i vecchi ovili, già riconvertiti a stalle per bovini, per realizzare i primi alloggi e da subito ci orientammo verso l’allevamento semi-brado, tenendo al chiuso i riproduttori e i suinetti e facendo il magronaggio in forma libera».
I fatti hanno dato ragione a questa scelta, dal momento che le scrofe, da quattro, sono diventate quaranta e la suinicoltura autoctona rappresenta la principale risorsa dell’azienda.
Si punta tutto sulla filiera corta del Nero lucano
«Facciamo anche vendita di cereali, grano in particolare, poiché siamo certificati biologici e i prezzi sono buoni, ma in primo luogo siamo una realtà zootecnica dedita alla suinicoltura». Una realtà che, tra l’altro, ha progetti di ampliamento. «Uno dei motivi per cui ci siamo allargati è che parallelamente all’allevamento abbiamo avviato un’attività di ristorazione. Inizialmente a Irsina e ora a Matera, nei Sassi. Grazie a questo canale abbiamo uno sbocco per una parte della produzione e soprattutto riusciamo a chiudere il ciclo: dalla nascita al consumo. Sono infatti convinto che realtà come la nostra abbiano un senso soltanto se praticano una filiera cortissima, che comprenda anche la trasformazione. Per questo motivo abbiamo intenzione di creare, non appena sarà possibile, un laboratorio aziendale, appoggiandoci a uno dei bandi pubblici che sporadicamente interessano il settore».
All’aria aperta
Molto spesso i suini di razze tradizionali sono allevati con formule che prevedono almeno una parte di vita all’aperto. Ciò vale anche per i capi di Signoriello e De Muro. Come spiegato in precedenza dall’allevatore, infatti, i pochi spazi coperti presenti sono utilizzati per ricoverare i riproduttori e i lattonzoli, mentre magronaggio e ingrasso avvengono nel recinto adiacente la sede aziendale. «Quando le femmine sono vicine al parto entrano nel capannone. Non sempre, in realtà, perché in alcune occasioni le ho lasciate partorire all’aperto, senza incontrare problemi particolari. Anzi, per la mia esperienza, questi animali non sono fatti per partorire in gabbia, tanto è vero che da qualche tempo, invece di metterle nei box singoli, le lasciamo in gruppo nel corridoio centrale della stalla. Qui partoriscono in piena autonomia e dopo quattro o cinque giorni le portiamo, con la cucciolata, nei box, dove restano fino allo svezzamento. Prima di andare all’aperto, i suinetti svezzati restano per qualche settimana in un box da circa cento capi, con una parte interna e una, molto ampia, all’aperto. Qui hanno paglia e altri materiali con cui giocare e socializzare. Materiali di cui ovviamente non avranno bisogno quando andranno al pascolo. Grazie a esso il problema delle morsicature alla coda, nel mio allevamento, non esiste». Come non esiste, aggiunge, quello delle epidemie: «Gli animali che devono morire lo fanno nelle prime settimane. Dopo lo svezzamento non ci sono più pericoli, anche se in azienda non usiamo antibiotici né altri farmaci, a eccezione di un vermifugo».
Alimentazione ricca
Gli animali sono nutriti, due volte al giorno, con farine prodotte in azienda. «Non compero sfarinati, ma soltanto una quota di cereali perché la produzione dei nostri terreni non basta ed è in parte venduta come granella. Diamo loro favino, scarti di pisello, grano spezzato e soprattutto orzo, molto abbondante in zona e ottimo per il finissaggio. Alle scrofe che vivono al chiuso diamo anche un po’ di avena per la fibra. Chi sta al pascolo, ovviamente, di fibra ne trova in abbondanza nel sottobosco».
I pasti sono distribuiti sul piazzale dell’azienda, dove sono presenti anche gli abbeveratoi. «In questo modo siamo certi che almeno due volte al giorno gli animali tornino in sede. Una volta alla settimana facciamo una specie di censimento per controllare che ci siano tutti e siano tutti in salute. I recinti infatti rappresentano un ostacolo, ma non sono invalicabili. Per esempio, abbiamo qualche problema di meticciato con i cinghiali. Vuoi per genetica che rispunta da chissà quando, vuoi per incroci freschi. Ci vorrebbero recinti migliori: doppi o fissi, ma costano troppo per le nostre tasche. Per questi interventi straordinari e una tantum, a mio parere, occorrerebbe un aiuto pubblico. Anche perché forme di allevamento come la nostra sono incoraggiate a livello europeo. Purtroppo la burocrazia spesso si mette di traverso e allora anche ottenere un semplice bando di Psr diventa un’impresa. È un peccato, perché sono convinto che se ben sostenuta, questo tipo di suinicoltura abbia importanti potenzialità, anche nel dare un lavoro ai giovani».
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