Costruire una filiera unita per recuperare redditività

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Scrofette per la produzione di suini pesanti.
La mancanza di un progetto di settore comune e l’abbandono della genetica nazionale sono le due criticità su cui intervenire secondo i diversi attori del comparto che si sono confrontati nella tavola rotonda, organizzata dalla Rivista di Suinicoltura alla Rassegna suinicola di Reggio Emilia

Costruire una filiera suinicola compatta e unita, che si ponga programmi chiari e individui una strategia da percorrere. Inoltre, lavorare sulla genetica per uniformare le cosce e rendersi concorrenziali di fronte alla produzione estera.

È risultato unanime il parere dei protagonisti della filiera suinicola italiana che hanno preso parte alla tavola rotonda “Dove va la suinicoltura italiana - Come cambia la redditività dell’allevamento, come evolve la competitività dei diversi prodotti”, organizzata dalla nostra Rivista di Suinicoltura (Edagricole - New Business Media), giovedì 4 giugno in occasione della tre giorni di convegni a marchio Rassegna Suinicola tenutasi alle Fiere di Reggio Emilia.

Come ha premesso Antenore Cervi, presidente di Asser, l’organizzazione dei suinicoltori dell’Emilia-Romagna, «il settore è ormai in sofferenza da anni e a dimostrarlo sono anzitutto i prezzi, che nei primi quattro mesi del 2015 hanno segnato un -11% rispetto all’anno scorso. Ebbene, di fronte a queste difficoltà, la filiera non ha fatto altro che spaccarsi. Ad oggi manca una vera e propria strategia comune e, se fino a qualche anno fa noi allevatori potevamo sostenere di contare qualcosa, ora non è più così».

Valorizzare Tutta la carcassa

Sul suino pesante il presidente di Asser ha riferito: «La regola deve diventare il mercato. Ma sappiamo anche che all’interno delle produzioni coesistono caratteristiche diverse, costi diversi e qualità diverse. Noi oggi chiediamo di riconoscere un valore al prodotto. Se infatti produrre suino pesante ci costa il 20% in più rispetto a quello leggero europeo, dove andiamo a recuperare questo 20%? Certo, una mano può darcela il prosciutto (almeno per un 10%). Per il restante 10% dobbiamo puntare invece sulla valorizzazione della qualità delle carni. Come? Attraverso strumenti come, ad esempio, il Sistema di qualità nazionale e un’etichettatura più incisiva che comunichi sia l’italianità del prodotto, sia le caratteristiche organolettiche tipiche del suino pesante. All’interno delle nostre produzioni coesistono qualità, costi e genetiche assai diverse: la sfida oggi è quella di valorizzare anche il resto della carcassa, oltre alla coscia. Anche alla luce di questo, le possibilità sono due: o la filiera ragiona insieme in modo compatto oppure, a partire da allevatori e macellatori, andremo sempre più in sofferenza».

Ripartiredall’interprofessione

Anche Davide Calderone, direttore di Assica, l’Associazione industriali delle carni e dei salumi, definisce la fase attuale «molto delicata». E nel suo intervento ha aggiunto: «Come tutti avrete avuto modo di sentire, attraverso diverse trasmissioni televisive, c’è chi mette in discussione la sicurezza, la salubrità e l’eticità del consumo di carne. Proprio per questo è urgente che troviamo una linea comune e di feconda collaborazione tra il mondo agricolo, la macellazione e la trasformazione. Da parte nostra, abbiamo cominciato a collaborare con le aziende agricole, con le Asl, e così via, per comunicare le “cose buone” che produce il settore. Da questo punto di vista, come Associazione, stiamo lavorando molto sulla comunicazione coinvolgendo anche i Consorzi».

E a proposito di Consorzi, Calderone ha aggiunto: «All’interno dei Consorzi è presente una Commissione interprofessionale consortile composta da 5 agricoltori, 5 macellatori e 5 rappresentanti del mondo della trasformazione. Sarebbe un ottimo punto d’inizio, o meglio di ripartenza. E proprio da qui auspico che si possa ripartire: dall’interprofessione».

E sul prosciutto nello specifico, Calderone ha aggiunto: «Oggi assistiamo a un calo consistente del consumo del prosciutto di Parma. Ciononostante, il prezzo non è cambiato. Significa che qualcosa non va. Che fare? Troviamoci insieme e cerchiamo di stabilire quali sono le priorità, perché è ovvio che se continuiamo a parlare del prezzo, ogni parte mette in campo le proprie motivazioni e le proprie esigenze. Lavorare insieme è ciò che dobbiamo fare, e dobbiamo farlo con urgenza».

Nel Psr Emilia-Romagna fondi all’innovazione

Da parte sua la Regione Emilia-Romagna si è impegnata a «porsi al fianco di questi esperti nel momento in cui avranno un progetto». Davide Barchi, dell’assessorato Agricoltura e servizio produzione animali, ha infatti citato il Psr alla voce «innovazione», «per la quale sono previsti fondi da 15mila euro a 1 milione di euro, che dipendono dal tipo di richiesta, progetto, filiera e così via».

Ha spiegato Barchi: «Nel Piano sono previsti spunti interessanti per l’innovazione. Che tuttavia hanno bisogno di strategie, di progettualità, di programmazione e di elementi diversi della filiera che si mettono insieme per intraprendere un percorso comune. L’innovazione può infatti essere non solo quella tecnologica, relativa a un prodotto o all’allevamento, ma anche innovazione di sistema. In questo caso bisogna però partorire delle idee, metterle sul tavolo ed essere sostenuti dall’intenzione di metterle in pratica. Parallelamente sarà necessario porsi delle domande, come ad esempio: tra le nostre finalità, rimane ancora la valorizzazione del suino pesante? Come? Solo attraverso il prosciutto oppure attraverso la valorizzazione di tutti i tagli? Queste sono le domande da porsi e da cui partire».

Ha proseguito poiBarchi: «Le previsioni di chi mi ha preceduto fanno riflettere. Se si continuerà a procedere come si è fatto fino ad oggi, la prospettiva è la chiusura di ulteriori attività. Questa situazione presuppone un intervento. Si rende fondamentale individuare insieme una strategia da percorrere, non solo affermare o decidere che ci si metterà intorno a un tavolo. Certo, l’interprofessione è sicuramente uno strumento per governare e per mettere a punto l’attuazione di questa strategia. Ma chi si mette intorno al tavolo deve governare il sistema dandosi progetti chiari e precisi e, soprattutto, una strategia d’azione. Infatti, solo se si hanno progetti chiari e precisi il Progetto di sviluppo rurale può dare una mano. Nel caso contrario il Psr non serve a nulla».

L’industria di trasformazione

Dalla parte dell’industria della trasformazione, ha preso la parola Fiorenzo Modena, responsabile suinicoltura del Gruppo Amadori, il quale ha parlato dell’esperienza del Gruppo, che di recente ha proceduto a un ridimensionamento del comparto, attraverso il dimezzamento della produzione della sua filiera. «Oggi gli allevatori che resistono sono quelli che hanno scelto di andare in soccida. Quanto al suino pesante, non sono sicuro che sia il migliore di tutti. Abbiamo etichettato le carni e va bene. Ma i macellatori, gli allevatori vorrebbero vedere le 3 «i» sull’etichetta, vale a dire: «nato in Italia, allevato in Italia e macellato in Italia». In Umbria, ad esempio, hanno inventato un “modulo” per garantire le tre “i”, mentre in altre città non è successo niente. Quanto al prodotto stagionato, invece, sono certo che si tratti di quello migliore al mondo».

Investire nella genetica per abbassare i costi

Ha proseguito poi Modena: «Dobbiamo lavorare sull’andamento dei costi. E allora ecco che torna prepotentemente in campo la genetica, anzitutto allo scopo di uniformare le cosce. Personalmente, mi auguro che si completi il sistema dell’etichettatura e che si possa produrre con genetiche più adatte per abbassare i costi. In altri Paesi, questo lo fanno già e lì si registra il 32% di resa contro il nostro 27%. Oggi abbiamo una disomogeneità che stiamo pagando cara e che non avremmo se avessimo investito maggiormente sulla nostra genetica».

Anche Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia, ha puntato il dito sulla genetica. Ha riferito Prandini: «Le cose da fare sono molte e fare filiera è sicuramente un obiettivo preciso. Ma ritengo che il problema principale sia di tipo culturale. Se si continua, come è accaduto in passato, a usare risorse destinate al comparto agricolo per fare altro, non si andrà da nessuna parte. Io sono convinto che non ci possa essere suinicoltura se non si hanno alla base le scrofaie. Se è vero che dal 2012 al 2013 abbiamo perso il 20% delle scrofaie e che nel 2014 ci apprestiamo a chiuderne un ulteriore 30%, significa che quello che è successo nel comparto della carne rossa (vale a dire l’abbandono delle linea vacca-vitello con conseguente dipendenza dalla Francia, ndr) non ci ha insegnato nulla».

Quindi il presidente di Coldiretti Lombardia ha affrontato il tema dei costi aziendali, «che in Italia sono i più alti in assoluto rispetto a quelli dei Paesi confinanti con noi. Pensiamo al costo dell’energia in Francia, ad esempio, che si differenzia da noi per il 35% di spesa in meno. E pensiamo al costo della manodopera, che in Paesi come la Polonia, l’Estonia e la Lituania o la stessa Germania mostra una differenza fino al 50% rispetto all’Italia. E mentre gli altri Paesi hanno sviluppato, attraverso la genetica, tre o quattro tipi di animali che allevano, noi in questi anni ci siamo adattati ad importare di tutto e di più. Se invece avessimo investito in termini di ricerca avanzata sulla nostra genetica, oggi potremmo dire di avere maggiore uniformità all’interno del prodotto che poi offriamo al consumatore».

Un altro problema segnalato da Prandini è quello contributivo, in relazione soprattutto all’appropriazione indebita di risorse: «La Pac della vecchia programmazione era del tutto sbagliata, perché, indipendentemente dal numero di capi che allevavo, se inizialmente avevo 1.000 capi per rimanere con 10 animali, continuavo a percepire le risorse relative ai 1000 capi». Oltre ciò, il presidente di Coldiretti Lombardia ha definito «allucinante che, in una situazione di evidente difficoltà del sistema suinicolo, l’Europa si ostini a dire che per questo comparto non si possono prevedere finanziamenti comunitari come accade invece nel resto della filiera».

Sottolineando la necessità di evidenziare la distintività del Paese, Prandini ha portato a esempio la Spagna: «Utilizzando strategie di carattere economico, realizzando strategie di carattere commerciale e commercializzazione dei prodotti agroalimentari, la Spagna arriva ad avere sbocchi sui mercati dove c’è la disponibilità dal parte del consumatore anche di spendere di più. Noi continuiamo invece a ragionare per compartimenti stagni. Qui serve piuttosto una strategia per ritrovare una sinergia tra tutti gli attori e per riscrivere i rapporti. Se fino ad oggi abbiamo pensato che il nostro unico interlocutore fosse il macello, oggi dobbiamo invece parlare con l’industria e con la grande distribuzione organizzata. Lo scopo: riscoprire il ruolo dell’impresa agricola su questo territorio. E come? Comunicando, spiegando, facendo informazione, portandoci vicino ai mezzi di comunicazione con maggiore sinergia tra gli attori della filiera». E ha concluso: «Non è corretto dire che la grande distribuzione è solo quella estera. Nel nostro Paese le prime tre catene distributive sono italiane. Possibile che non riusciamo a dialogare con loro? Tutto ciò andrebbe a vantaggio della giusta informazione al consumatore».

Secondo Guido Zama, presidente dell’organizzazione interprofessionale Gran Suino Italiano, il problema dell’Italia è la mancanza di un’interprofessione riconosciuta. Ha asserito Zama: «Stiamo continuando a dire le stesse cose di 20 anni fa. Abbiamo sempre pensato che il nostro prodotto si potesse vendere a prescindere, che non ci fosse bisogno di alcuna programmazione, di strategie, di modelli operativi ovvero di un sistema che sapesse fare Paese. Come filiera non siamo stati in grado di metterci intorno a un tavolo a progettare. Ma siccome ci troviamo a operare in un mercato mondiale dove ci sono tecnici specializzati che quotidianamente studiano come poter aggredire i mercati, la realtà dei fatti è che in Italia non esiste una vera e propria filiera italiana. Manca un’interprofessione riconosciuta. Cosa significa? Che allevatori, macellatori, stagionatori, trasformatori (e anche la distribuzione) dovrebbero sedersi intorno a un tavolo e decidere una volta per tutte cosa fare, dandosi però delle regole. Ebbene, di tavoli di filiera ne abbiamo fatti moltissimi, l’ultimo cinque anni fa: allora ci demmo dei programmi, nessuno dei quali però è mai stato realizzato.Oggi dobbiamo assolutamente darci delle regole. La prima cosa da capire è vedere chi vuol fare parte di questo tavolo dell’interprofessione».

Export, il superamento delle barriere fitosanitarie

E Zama ha affrontato anche il tema dell’export: «Abbiamo un sistema sanitario che ci impedisce di esportare in determinati Paesi perché qui da trent’anni sono presenti malattie che non riusciamo a debellare. E non riusciamo non perché non abbiamo gli strumenti, ma perché ci manca la volontà. Siamo riusciti a conquistare la possibilità di esportare prosciutti negli Stati Uniti, ma non abbiamo macelli certificati con il bollo richiesto da quel Paese, per cui siamo paradossalmente costretti ad appoggiarci ai macelli tedeschi. E questo perché non abbiamo fatto una politica. Altro paradosso: abbiamo un fondo comunitario che mette a disposizione risorse fino a 200mila euro per fare promozione. Ma non siamo in grado di utilizzarli, perché non abbiamo progetti, che si possono fare solo se si è uniti, mentre noi siamo divisi. E finché saremo divisi tutti questi aspetti rimarranno irrisolti».

Per Zama è giunto dunque il momento di «salvare» il settore. Come? «Trovandoci attorno al tavolo di un’interprofessione che sia regolata. E con quale modello ci vogliamo organizzare? Abbiamo una suinicoltura che non è in grado di produrre cosce omogenee, quindi il mio pensiero è: prendiamoci del tempo per guardarci intorno, studiare e fare una corretta programmazione per promuovere la genetica migliore per noi. Per troppo tempo abbiamo fatto ricadere tutto il peso del suino sulla coscia. E’ tempo di valorizzare anche il resto dei tagli. Il Sistema di qualità nazionale consentirebbe, nell’ambito delle norme comunitarie, di poter finanziare la comunicazione del prodotto, che potrebbe rappresentare un valore aggiunto. Se ad oggi la Gdo non ha intenzione di sedersi attorno ad un tavolo perché non ne trova l’interesse, quando si troverà davanti una filiera costituita da allevatori, macellatori e stagionatori uniti e forti, sono certo che non avrà esitazioni a presentarsi».

«Trasformare la filiera da filiera del dire a filiera del fare» è il punto di partenza per Lorenzo Fontanesi, presidente di Unapros, l’associazione che riunisce Opas, Assocom, Asser, Aps Piemonte e Suinmarche. Secondo Fontanesi, infatti, «la filiera ormai sta diventando una zavorra, perché sono anni che discutiamo su come poterla migliorare e tenere unita. Ma continua ad essere costituita da soggetti che mettono in campo solo interessi opportunistici. Ad oggi alla filiera manca una vera condivisione dell’obiettivo finale. Perciò, ritengo che questi obiettivi dobbiamo porceli, così come è nostro dovere darci delle scadenze. Il cambiamento in questo Paese spaventa. Diamoci una buona volta una scadenza, troviamo un obiettivo e cerchiamo di raggiungerlo tutti insieme».

Chi potrebbe avere, anche tra i soggetti che erano presenti alla tavola rotonda, la forza di dare una scadenza senza aspettare il ministero che comunque varie volte ha tentato di darla? Ha risposto Fontanesi: «I soggetti privati non possono. E il problema della politica è quello di cercare di accontentare tutti, invece di scommettere, capire quali realtà e quali progetti devono e possono andare avanti. Altrimenti, se aspettiamo che tutti si mettano d’accordo, non finiremo mai di aspettare».

L’esperienza della cooperativa Fcs

Giulio Bernocchi, direttore della cooperativa Comazoo di Montichiari (Bs), ha riportato l’esperienza della cooperativa, che oggi conta 1.500 allevatori nei diversi settori: «Negli ultimi anni abbiamo iniziato a cercare di recuperare i rapporti con quegli allevatori che stavano chiudendo o che erano in procinto di farlo. Abbiamo costituito una coop che si chiama Filiera Cooperativa Suinicoltori (Fcs), a Montichiari, con l’obiettivo di dar vita a una filiera che potesse aiutare questi allevatori in difficoltà. La situazione è difficile e che da almeno quattro anni a questa parte non sembra essere cambiato nulla nelle condizioni e nel contesto di lavoro. Il grande problema rimane quello della disunità che ancora caratterizza il comparto. Come reagire? Fare filiera significa andare nella direzione giusta, ma non è tutto qui. Se infatti quella filiera al suo interno è disomogenea ovvero disunita, allora non andrà da nessuna parte».

Il vicepresidente di Fcs, Quirino Stori, però ha portato una testimonianza positiva, quella della cooperativa: «La nostra coop è nata dalla necessità di incontrarci e di organizzare il lavoro dei nostri associati attraverso il dialogo continuo, quotidiano. Come? Quando parliamo di filiera, dobbiamo ammettere che manca il tramite costante tra coloro che sono seduti negli uffici e coloro che stanno in allevamento. Mettere in contatto gli uni e gli altri ci ha portato a un aumento del 40% delle vendite. Si è trattato di un rapporto stretto, quotidiano tra i nostri allevatori e i nostri veterinari per comunicare tra di loro. Non è facile, ma è l’unico modo. Nel primo quadrimestre 2015 abbiamo registrato una flessione del fatturato per unità di prodotto (-9%), rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma, grazie a un aumento dei soci, parimenti abbiamo osservato un aumento del fatturato globale. Questo è il nostro contributo e siamo molto soddisfatti».

Ha concluso Stori: «Oggi a questa tavola rotonda ho l’impressione di aver sentito tante diagnosi e poche terapie. Anche a seguito della nostra esperienza, tengo a sottolineare come il caposaldo di tutto rimanga l’allevamento, il quale muove la filiera. Stagionatori e macellatori si devono rapportare con noi allevatori ed essere più chiari nei nostri confronti. Ad oggi, infatti io, allevatore, non posso incidere sul prosciutto di Parma o di San Daniele, perché è una realtà avulsa da me e perché tutto viene deciso dallo stagionatore, che a sua volta mi considera un suo fornitore. Esorto quindi con forza la filiera sopra di noi, quella costituita da macellatori e stagionatori, a essere più trasparenti nei nostri confronti».

 

L'articolo intero è pubblicato sulla Rivista di Suinicoltura n. 7-8/2015

Costruire una filiera unita per recuperare redditività - Ultima modifica: 2015-07-08T10:00:55+02:00 da Barbara Gamberini

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