Nel corso di Fieragricola 2022, tenutasi a Verona dal 2 al 5 marzo, gli esperti del settore agro-zootecnico hanno discusso la situazione attuale e le prospettive future della filiera produttiva del biogas. In particolare, gli interventi di Elio Dinuccio e di Giorgio Provolo si sono incentrati sugli aspetti tecnici e operativi degli interventi volti ad aumentare la sostenibilità della filiera del biometano e sulle tecniche mirate ad ottenere una gestione sostenibile del digestato.
Perché incentivare la produzione di biogas?
Le ragioni che sono alla base del crescente interesse nei confronti del biometano sono innanzitutto legate alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico: come è noto da tempo infatti, l’Italia è fortemente dipendente dall’importazione estera di gas naturale, fattore che comporta una serie di criticità che la recente crisi ucraina ha drammaticamente messo in luce, anche agli occhi dell’opinione pubblica.
L’Unione europea si è fortemente impegnata nell’ultimo decennio in uno sforzo legislativo volto a tutelare l’ambiente rispetto ai potenziali rischi legati alla filiera di produzione di biogas. Recentemente si è infatti assistito all’emanazione di politiche a livello europeo (il cosiddetto “Pacchetto clima ed energia” contenuto nel Regolamento 2021/1119) mirate alla riduzione di emissioni di gas ad effetto serra, che si prefiggono obiettivi molto ambiziosi da raggiungere nel medio e lungo periodo e che puntano alla riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Per raggiungere questi obiettivi, a livello nazionale è stata elaborata una strategia energetica contenuta nel decreto legge del 2 marzo 2018, sostanzialmente finalizzata alla promozione dell’uso del biometano e di altri biocarburanti avanzati nel settore dei trasporti. Oggi è in fase di definizione un nuovo decreto, che apre le prospettive all’uso del biometano anche in contesti domestici e residenziali. Le linee di incentivazione del decreto esistente hanno favorito la creazione di impianti per biometano di tipo agricolo e obbligano i produttori di biometano a garantire determinati livelli di sostenibilità ambientale sulla totalità della filiera.
Il biometano è il prodotto di un processo di digestione anaerobica di materia organica e viene spesso utilizzato in processi di cogenerazione, finalizzati a loro volta alla produzione di energia elettrica. Il sistema di produzione si compone di un reattore, dove avvengono le trasformazioni biologiche che danno origine al biogas, delle infrastrutture che consentono l’approvvigionamento, lo stoccaggio e il trasporto delle biomasse impiegate e di una serie di strutture che consentono la gestione del digestato, ossia quello che rimane della biomassa dopo l’azione di digestione.
Biometano e reflui zootecnici
Nell’ottica di una maggiore sostenibilità ambientale, economica e sociale del sistema, tutte le fasi che compongono la filiera devono essere attentamente valutate.
Il decreto biometano, ad esempio, vieta l’utilizzo di biomasse potenzialmente impiegabili nella nutrizione degli animali (come l’insilato di mais) ed è questo uno dei motivi che hanno portato i reflui zootecnici ad avere un ruolo di primo piano nella produzione di biogas. L’impiego di liquami zootecnici in questo ambito consente di ridurre in maniera significativa le emissioni di gas a effetto serra, ma presenta una serie di criticità, la più importante delle quali è rappresentata da una bassa densità energetica (in particolare i reflui derivanti dal settore suinicolo) e quindi una bassa potenzialità di produzione di biogas.
Diventano perciò importanti alcune strategie di trattamento dei reflui, come ad esempio la separazione, che consiste nella concentrazione dei nutrienti in una frazione solida che ha un potenziale energetico decisamente superiore al refluo tal quale. I reflui zootecnici derivanti dalla suinicoltura hanno circa il 5% di sostanza organica e consentono la produzione di 8-10 Nm3 di metano per tonnellata, che possono quadruplicare se la frazione solida viene separata dalla frazione liquida.
I vantaggi ambientali derivanti dalla sostituzione del combustibile fossile con biometano sono essenzialmente legati alla riduzione delle emissioni di CO2, alla riduzione del 99% del particolato carbonioso e alla riduzione dell’emissione di ossidi di azoto e di idrocarburi non metanici.
La sostenibilità ambientale della filiera
La questione attualmente più dibattuta in materia è se la filiera del biometano sia veramente sostenibile. Da un punto di vista tecnico, tutte le fasi della filiera possono rappresentare dei fattori di rischio ambientale, perché determinano l’emissione in atmosfera di gas a effetto serra e ammoniaca.
La fase di produzione e trasporto della biomassa costituiscono il principale contributo all’emissione di gas serra e, di conseguenza, il principale ostacolo alla sostenibilità ambientale della filiera. Per questo motivo, la normativa in fase di elaborazione introdurrà dei limiti all’utilizzo di biomasse nella produzione di biometano.
Se si mettono a confronto i diversi sistemi in cui si può realizzare la filiera di produzione, è stimato che un sistema che affianca l’utilizzo di “energy crops” (come sorgo e triticale) a quello di sottoprodotti (ossia i reflui zootecnici) comporti un’emissione di CO2 di circa tre volte maggiore rispetto a quella emessa da un sistema che impieghi solamente i sottoprodotti. Questo maggiore impatto è essenzialmente legato alla coltivazione degli energy crops.
Gli aspetti da considerare per la corretta gestione delle biomasse riguardano idonei sistemi di stoccaggio e di copertura prima dell’utilizzo nella fase di produzione, in quanto in questa fase è estremamente probabile il rilascio in atmosfera di gas a effetto serra e ammoniaca, così come l’emissione di cattivi odori, che hanno un forte impatto sulla sostenibilità sociale della filiera. Per questo motivo sono allo studio dispositivi innovativi mirati a ridurre il leakage del metano (ossia la perdita di metano in atmosfera).
La gestione del digestato
Le esigenze che si profilano, dunque, per ottenere una corretta gestione e valorizzazione agronomica del digestato partono dallo sviluppo e dalla messa in pratica di processi di trattamento volti alla riduzione della massa da gestire e alla valorizzazione del contenuto di nutrienti. È fondamentale, inoltre, ridurre i costi di gestione del digestato che, insieme al management delle biomasse in ingresso, costituisce un’importante voce di spesa e un grande limite riguardo la sostenibilità economica della filiera. Un altro aspetto importante è la massimizzazione dell’utilizzo del contenuto in azoto, sodio e potassio (NPK) delle biomasse, in cui gli interventi da adottare devono puntare a ridurre le perdite in fase di stoccaggio.
Per quanto riguarda il contenimento dei costi di gestione è essenziale l’adozione di idonei cantieri di trasporto e distribuzione, così come l’impiego di attrezzature appropriate, in grado di garantire il controllo della dose di distribuzione e la determinazione del contenuto in NPK, in modo da erogare una distribuzione calibrata sulle esigenze delle colture. Infine, i sistemi di trasporto e distribuzione devono garantire la riduzione delle emissioni di ammoniaca e gas ad effetto serra. Dal punto di vista pratico, questo si traduce nell’utilizzo di vasche di stoccaggio coperte e, per quanto riguarda gli impianti di trasformazione in biogas, di coperture gasometriche che garantiscano il recupero di eventuali perdite di metano.
Per quanto riguarda, invece, la scelta del sistema di distribuzione, il confronto tra i diversi sistemi in termini di abbattimento delle emissioni di ammoniaca viene fatto rispetto al piatto deviatore, che, nonostante ad oggi sia in disuso, viene comunque considerato il sistema di riferimento.
La distribuzione in banda ha l’obiettivo di ridurre la superficie esposta, così da ridurre significativamente le emissioni. In questo senso, il sistema ottimale è quello che prevede l’iniezione diretta del digestato.
Il Progetto Life Clinmed-Farm
Alla luce di quanto finora esposto, le prospettive di sviluppo della digestione anaerobica nel rispetto dei principi di sostenibilità della filiera devono partire da un’oculata scelta delle biomasse da impiegare come substrato e dalla scelta dei pre-trattamenti a cui ricorrere (non solo la separazione solido-liquido, ma anche altri trattamenti di tipo fisico e biologico ad oggi in fase di studio). È altresì necessario migliorare l’efficienza energetica degli impianti, puntando a valorizzare anche l’energia termica ottenuta. Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è la possibilità di separare il biogas dalla CO2, che può essere a sua volta valorizzata utilizzandola in altre filiere, come quella alimentare.
Da un punto di vista pratico, il Progetto Life Clinmed-Farm (towards a mediterranean climate neutral farm model) ha riguardato la messa a punto e dimostrazione di soluzioni innovative per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra in sistemi agro-zootecnici, in un’ottica di gestione circolare delle risorse. Questo progetto, guidato dall’Università di Torino e portato avanti da una cooperativa piemontese, coniuga aspetti di produzione energetica con aspetti di miglioramento dell’efficienza economica del sistema, realizzando anche una rete di collaborazione con varie realtà del territorio piemontese. Nell’ambito del progetto saranno valutate azioni che hanno la finalità di ridurre l’impatto ambientale del sistema nel suo complesso, partendo da strategie volte alla riduzione dell’emissioni di gas serra a monte della filiera stessa, ossia nell’allevamento. Ulteriori strategie di riduzione delle emissioni saranno valutate anche per la fase di stoccaggio. Alcune delle strategie innovative in studio presso la cooperativa torinese riguardano l’impiego di membrane innovative, che hanno funzione di ridurre le perdite dalle coperture gasometriche. Sono inoltre allo studio un sistema di valorizzazione dell’energia termica, assieme a due diversi sistemi di distribuzione del digestato (in banda e interrato, ossia ad iniezione diretta) che prevedono l’applicazione di tecniche di acidificazione del liquame e di inibizione della nitrificazione.
Considerando la riduzione dell’emissione di ammoniaca, l’iniezione è sicuramente il metodo più efficace sotto questo aspetto, ma non sempre è praticabile e sicuramente comporta maggiori costi energetici e aumenta il rischio di compattamento del suolo.
L’acidificazione del digestato
L’acidificazione è una tecnica che consiste nell’aggiungere alcuni additivi al digestato, principalmente acido solforico, al fine di portare il pH del refluo a valori intorno a 5.5 - 6. In queste condizioni, l’ammonio rimane in forma solubile e quindi si riducono significativamente le emissioni di ammoniaca. L’acidificazione comporta anche l’inibizione dei complessi batterici che fermentano la materia organica con produzione di metano e, di conseguenza, comporta anche la riduzione dell’emissione di questo gas e di protossido di azoto.
L’acidificazione dei liquami durante la fase di distribuzione comporta molteplici vantaggi, tra cui vale la pena ricordare un migliore utilizzo dell’azoto (fino all’85%), la possibilità di utilizzare il solfato di ammonio nella fertilizzazione delle colture, importante soprattutto per erba, colza, frumento e altri cereali, che porta ad un 40% in più di disponibilità di fosforo nelle piante.
In questo modo, si può ottenere anche una riduzione della carenza di manganese ed è possibile utilizzare la distribuzione a banda invece dell’iniezione profonda, con minore calpestio. Un ulteriore vantaggio da non sottovalutare è che il processo di acidificazione è conforme alla legislativa europea e contribuisce sia alla riduzione degli odori che al potenziale abbattimento delle emissioni di N2O, presenti invece con l’interramento del liquame tal quale.
Infine, gli inibitori della nitrificazione contribuiscono alla riduzione di emissioni di ammoniaca bloccando la prima fase del ciclo di produzione dell’ammonio.
Le perdite di azoto
Passando alle strategie volte a ridurre le perdite di azoto nella biomassa e nel digestato, occorre fare una premessa di tipo economico. L’importanza di questo punto, infatti, è di carattere non solo ambientale, ma anche economico: le perdite di azoto rappresentano un costo per l’intera filiera di produzione di biogas. Supponendo una situazione ipotetica non distante dalla realtà, assumiamo che 1 m3 di digestato contenga circa 5 kg di azoto. Se le perdite in aria dovute a stoccaggio e distribuzione ammontano a circa il 45% dell’azoto totale (stima conservativa, che si ottiene quando sono già messe in pratica strategie di riduzione delle perdite) e ipotizzando un’efficienza di utilizzo della sostanza organica di circa il 60%, si perdono complessivamente più di 3 kg di azoto dei 5 complessivamente contenuti nel digestato. Se fino a poco tempo fa questo si traduceva, dal punto di vista economico, nella perdita di circa 2,5 euro per metro cubo di digestato, oggi comporta invece la perdita di 6,5 euro per metro cubo di digestato, perché il prezzo dell’urea è più che triplicato nell’ultimo anno. Se riusciamo a recuperare parte di questo azoto, si ottiene un risparmio di circa 4 euro per metro cubo e il ricavo finanziario così ottenuto può essere impiegato nell’implementazione delle strategie che prevengono le perdite stesse, senza rinunciare al bilancio economico in positivo dell’intero sistema. I trattamenti del digestato sono quindi una strategia vincente, che comporta benefici di carattere ambientale, sociale ed economico.
Tra i trattamenti che si possono utilizzare troviamo la separazione dei solidi, con l’ottenimento di una frazione chiarificata e una frazione palabile facilmente trasportabile e relativamente stabile. L’efficienza di separazione può essere ulteriormente implementata fino ad ottenere solidi più fini, arrivando ad eliminare alcuni solidi, compresi azoto e fosforo in forma minerale. A questo scopo, diversi sistemi possono essere adottati, tra i quali si ricordano centrifugazione e flottazione.
Un ulteriore tecnica è la fertirrigazione con il digestato: questo processo richiede un doppio passaggio di filtrazione che consente di ottenere solidi grossolani e solidi fini, prima di essere immesso nell’acqua di irrigazione per evitare l’occlusione di ugelli e gocciolatori.
Esistono anche dei trattamenti biologici per la rimozione dell’azoto, che sono distruttivi dal punto di vista della conservazione dell’azoto stesso, che viene rilasciato nell’ambiente. Esiste poi l’estrazione dell’azoto come elemento minerale, attraverso l’uso di impianti di strippaggio che prevedono la volatilizzazione dell’ammoniaca presente nel digestato. L’ammoniaca viene raccolta in un flusso d’aria, che a sua volta viene fatto passare in una torre di lavaggio con acido solforico e conseguente produzione di solfato ammonico. Alla fine del processo si ottengono un digestato scarico di azoto e un prodotto di intrinseco valore che può essere utilizzato in agricoltura.
Un’altra tecnica di trattamento del digestato è rappresentata dall’ultrafiltrazione, il cui apporto benefico alla gestione consiste nel ridurre il volume di effluente da gestire, dal momento che una parte può essere dirottata su acque superficiali (circa il 50% del volume). L’utilizzo di questa tecnica porta ad un prodotto finale che richiede un ulteriore processo per la rimozione completa dell’azoto, che può essere ottenuto con l’osmosi inversa. Il ritentato dell’osmosi inversa può poi essere avviato allo strippaggio con un sistema classico.
Esistono inoltre sistemi di strippaggio alternativi, tra cui uno estremamente semplice ma efficace è costituito da un impianto molto simile ad una vasca di stoccaggio coperta (vasca miscelata e riscaldata), il cui scopo è far volatilizzare l’ammoniaca per poi recuperarla con un flusso di aria che viene inviata ad uno scrubber. È un processo lento di strippaggio che richiede alcuni giorni, ma dal quale si possono ottenere valori dal 50 al 70% di recupero dell’azoto totale che entra nel processo. È un processo a basso consumo energetico, soprattutto se abbinato ad un impianto di produzione di biogas, poiché le temperature dei due processi sono le medesime, ossia 40°C.
Le prospettive e l’applicabilità delle tecniche di strippaggio si basano perciò sulla possibilità di commercializzare il solfato ammonico, il cui costo è di circa 2 euro per kg di azoto rimosso. Al costo attuale dell’azoto, lo strippaggio consentirebbe perciò di ottenere un prodotto ad alta efficienza economica ed ambientale degli effluenti.
Conclusioni
In conclusione, l’utilizzo consapevole dei reflui zootecnici nella produzione di biogas non può e non deve prescindere dalla gestione del digestato e deve tenere conto di tutta la filiera (dalla razione al campo). Fondamentale è dunque limitare le emissioni, puntando a conservare l’azoto, che rappresenta esso stesso un prodotto di grande valore intrinseco.