L’allevamento rurale del Nero piemontese fa leva sul legame razza-territorio

Nero piemontese
Roberto Costa
Il suino Nero Piemontese, se ben gestito, può rappresentare un’occasione di recupero per territori svantaggiati e una possibilità di lavoro soprattutto per giovani allevatori. L’esperienza di Roberto Costa, allevatore di Castellinaldo (Cn)

L’attenzione verso le razze autoctone italiane e le razze locali a limitata diffusione è in crescita: lo provano il successo ottenuto dai prodotti (solitamente di altissima qualità) che si ricavano da questi animali e la crescente attenzione verso un tipo di allevamento in genere molto lontano dai canoni della produzione intensiva. Un’ulteriore dimostrazione arriva dalla recente approvazione del Ministero agricolo dell’inserimento nella sezione “razze di nuova costituzione” del Libro genealogico Anas della razza Nero di Lomellina, che può essere denominata anche Nero del Piemonte, Nero piemontese e Nero di Cavour. Si tratta di una popolazione che richiama le ormai perdute razze di Garlasco e Cavour. Che la razza sia unica non deve stupire, del resto anche le due antiche razze progenitrici – che risultano comunque estinte, a scanso di equivoci – erano assai simili tra di esse e spesso soggette a incroci, anche per ragioni territoriali: la prima era infatti diffusa in Lomellina, come chiaramente indica il nome, mentre la seconda popolava le colline astigiane e Alessandrine, oltre al Monferrato. In altre parole, a separarle c’erano il Po e pochi chilometri di campagne.
Anas ha dapprima individuato negli allevamenti aderenti i suini con le caratteristiche della nuova razza e ha avviato il programma di gestione della razza stessa che si basa sull’identificazione di suinetti, sulla registrazione dei dati riproduttivi e delle genealogie col fine di contenere la consanguineità e mantenere la robustezza.

Nero piemontese
Morfologicamente, il suino Nero piemontese presenta pelo bruno, corpo massiccio e orecchie pendule con orientamento frontale

Una storia di passione

In questa puntata ci occupiamo di un allevatore piemontese, uno tra i primi a impegnarsi per la costituzione della nuova razza lomellino-piemontese e oggi a capo di un’associazione che cerca di valorizzare l’alta qualità di questi animali con forme di allevamento decisamente lontane da quelle attuali. Comprendenti, per esempio, lo stato brado o semibrado e un’alimentazione con priorità a mais, cereali vernini, ghiande e castagne. La compongono otto allevatori, distribuiti tra Astigiano, Verbano e Cuneese, e lui è Roberto Costa, un viticoltore – è titolare della cantina Teo Costa di Castellinaldo (Cn) – che alla passione per la vite affianca quella per i suini. Del resto, anche prima di allevare Nero Piemontese non era del tutto digiuno di suinicoltura, essendo nato e cresciuto in una fattoria di stampo tradizionale, dove alla coltivazione dei campi e del vigneto si affiancava l’allevamento misto: polli, conigli, bovini e naturalmente suini.

I bargigli sono un carattere secondario della razza che Costa sta cercando di recuperare

«Arrivammo ad avere 200 capi, prima di abbandonare quell’attività. Sarà forse per i ricordi di giovinezza che quando un giorno, in Toscana, vidi due scrofe di Cinta Senese che allattavano i cuccioli nella neve, stringendosi una all’altra per tenerli caldi, mi innamorai di quella splendida razza». Inizia così una storia che lo porterà, vent’anni dopo, a essere uno dei primi allevatori della nuova razza, riconosciuta a inizio dello scorso anno. «Al riguardo, desidero ringraziare con tutto il cuore gli assessori all’agricoltura del Piemonte che si sono impegnati per questo risultato: Giorgio Ferrero per la giunta Chiamparino e Marco Protopapa, attualmente in carica con la giunta Cirio».
La regione, aggiunge Teo Costa, continua ancor oggi a sostenere il Nero di Cavour: «Ha per esempio finanziato un’iniziativa dell’università di Torino per il miglioramento della razza e l’analisi accurata dei suoi parametri organolettici e qualitativi».

Patrimonio da preservare

La coda a spazzola, tipica delle razze più rustiche, contraddistingue i suini piemontesi

Veniamo però all’associazione, che come abbiamo scritto raggruppa otto produttori piemontesi. La partecipazione alla medesima non è ovviamente vincolante per allevare Nero del Piemonte, ma i soci si sono impegnati a non cedere riproduttori se non ad allevatori che dimostrino di voler valorizzare la razza seguendo i principi del disciplinare che si sono dati. «Il nostro obiettivo è valorizzare questo suino e impedire che logiche eccessivamente commerciali possano portare a una sua degradazione. Per questo motivo ogni aspirante socio deve essere riconosciuto dagli altri soci per poter avere i riproduttori certificati. Se ben gestito, il suino Nero di Piemonte può rappresentare un’occasione di recupero per territori svantaggiati e una possibilità di lavoro soprattutto per giovani allevatori. Penso, per esempio, all’Alta Langa, dove non è possibile coltivare viti o noccioli, ma anche a tante altre aree montane o pedemontane della regione».
Riportiamo a parte alcuni punti salienti del disciplinare, mentre di seguito ci occupiamo delle caratteristiche morfologiche di questi animali. Innanzitutto il colore, che ovviamente è nero, al pari della cute (ardesia), ma con ampia maschera facciale bianca e balzane bianche sugli arti inferiori. Altro tratto distintivo, sostiene Costa, è la carne, particolarmente consistente e con buona marezzatura, mentre dal punto di vista strutturale spiccano la stazza importante e l’indiscutibile rusticità, che lo rendono adatto all’allevamento allo stato brado o semibrado, peraltro previsto dal disciplinare. «Non abbiamo nulla contro gli allevamenti intensivi e siamo ben lungi dal considerarci i nuovi Messia della suinicoltura. Noi facciamo un discorso esclusivamente di nicchia e come tale ci interessa valorizzare una razza dalle caratteristiche del tutto peculiari».

Le carni di qualità del Nero piemontese

Prosciutti prodotti da cosce di Nero di Piemonte, riconoscibili per la caratteristica unghia nera

Queste caratteristiche, ci spiega ancora Costa, si traducono, per quanto riguarda gli animali allevati allo stato brado o semibrado, in un’altissima qualità della carne, che presenta una consistenza unica, con una percentuale di acqua molto contenuta, e la marezzatura che rende speciali i prosciutti. La destinazione del Nero Piemontese, alla luce anche della tradizione locale, è essenzialmente la trasformazione in salumi, prima ancora del consumo fresco.

«Per quanto ci riguarda, realizziamo soltanto tre prodotti: salame crudo, salame cotto e prosciutto crudo, che in massima parte serviamo ai clienti della nostra cantina. Alcuni colleghi, tuttavia, producono anche salsicce, capocollo e un eccezionale prosciutto cotto. Gli impieghi sono molteplici. A mancare è se mai la materia prima. Se volessimo – e se li avessimo – noi per esempio potremmo vendere decine di animali ad appassionati di varia provenienza, ma non è quello il nostro scopo. Per quanto mi riguarda, mi interessa soprattutto creare una sinergia tra la vendita del vino e l’alta qualità di questi salumi: un abbinamento che stupisce chiunque lo provi», fa notare Costa.

Vita all’aperto e alimentazione del Nero piemontese

Attualmente, aggiunge ancora, ci sono meno di mille capi di Nero Piemontese negli otto allevamenti dell’associazione. Il suo, sorto a margine di un’azienda vitivinicola da 90 ettari di terreni, a Castellinaldo d’Alba (Cn) conta per esempio un’ottantina di esemplari, compresi i riproduttori (otto scrofe e due verri). «Gli animali nascono e crescono all’aperto, in un terreno recintato che comprende un ex vigneto e una parte di bosco. Hanno come unico riparo delle capannette disseminate sull’area, ma spesso non le usano nemmeno. Del resto presso un allevatore di Macugnaga vi sono esemplari che dormono sotto una semplice tettoia con 15 gradi sotto zero».

Una parte dell’alimentazione è costituita da vinacce esauste, alimento ricco di antociani e, grazie ai vinaccioli, di acido linoleico e vitamina E

Per il prossimo futuro Costa ha comunque in programma un ampliamento importante: «Abbiamo acquistato 40 ettari di terreno a pochi chilometri da qui. Quindici sono costituiti da un bosco e alcuni incolti. Li trasformeremo in uno spazio per i suini molto più ampio dell’attuale e con molto più cibo a disposizione».
Fedele ai canoni dell’allevamento all’aria aperta, Costa vorrebbe che gli animali si nutrissero principalmente di ciò che trovano in natura. «Attualmente non è possibile, perché la parte boschiva è troppo limitata, per cui usiamo un integratore composto da prodotti locali come mais, orzo, fave e in cui la soia è stata sostituita dal girasole per azzerare rischi di Ogm. Nel nuovo spazio, tuttavia, ritengo che gli animali si procureranno da soli almeno il 60% del nutrimento».
«Vita all’aperto, giusta alimentazione e movimento si traducono in una qualità eccezionale, non comparabile se non con animali cresciuti nelle stesse condizioni. Come ho detto, non ci poniamo come antagonisti dell’allevamento intensivo, ma se mai come sua integrazione. Allo stesso modo in cui il Barolo ha fatto da apripista al Barbera, così i nostri prosciutti e salumi possono aprire la strada dei ricchi mercati esteri alla produzione nazionale, che è comunque un’eccellenza a livello mondiale».

Roberto Costa realizza due soli insaccati: il salame da cotta e il tradizionale salame crudo

 

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L’allevamento rurale del Nero piemontese fa leva sul legame razza-territorio - Ultima modifica: 2021-05-25T12:54:01+02:00 da Mary Mattiaccio

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