Di Francesca Baccino
La valorizzazione della carne suina è la strada da seguire per far uscire la suinicoltura dallo stato di crisi. L’obiettivo è quello di riuscire a far apprezzare sul mercato anche i tagli che non diventeranno prosciutti crudi di Parma o di San Daniele. In questo modo si crea più valore per tutto il suino. Lo sostiene Giorgio Apostoli, responsabile della zootecnia in Coldiretti che la Rivista di Suinicoltura ha intervistato chiedendogli però di fare un quadro del settore visto da un’angolatura esclusivamente positiva. Solo buone notizie, intravviste da chi inforca occhiali con lenti rosate, e individua opportunità interessanti.
L’allevamento di suini ha oggi un potenziale enorme di occasioni da cogliere, capaci di garantire un futuro. Secondo Apostoli gli aspetti positivi sono sotto gli occhi di tutti gli allevatori). Ne vale la pena, del resto, se si considerano i numeri del settore: 26mila aziende di allevamento, di cui oltre 4.500 fornitrici di materia prima per le Dop, e poco meno di 8,7 milioni di maiali (9,3 milioni nel 2012), destinati per il 70% alla produzione dei 36 salumi che hanno ottenuto dall’Unione europea il riconoscimento della denominazione di origine (Dop e Igp). Quanto al fatturato la produzione di salumi e carne di maiale in Italia, dalla stalla alla distribuzione, vale 20 miliardi. Nel 2013 l’export ha superato gli 1,18 miliardi di euro.
Cominciamo dal progetto del marchio Sqn, presentato dal ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali al tavolo di filiera. Perché non funziona?
«Non è una strada percorribile per arrivare all’obiettivo di valorizzare tutto l’animale. L’Sqn non può valorizzare la carne italiana fresca con denominazioni chiare che riconducano al “nato e allevato in Italia” e questo è un limite che ci fa pensare che questa non sia la strada giusta. Si tratta di una denominazione che potrebbe essere sinonimo di qualità, ma non di origine nazionale del prodotto. Bisogna invece puntare sulla provenienza visto che da molti sondaggi emerge che il consumatore vuole carne suina italiana ed è disposto a pagare di più per acquistare un prodotto italiano».
Qual è la soluzione allora?
«Far leva sulle denominazioni certificate dei grandi prosciutti italiani conosciuti in tutto il mondo e sull’appeal del marchio per dare più valore aggiunto, ad esempio, al lombo che potrebbe venire contrassegnato e valorizzato con l’etichetta “100% italiano della filiera del San Daniele”. Ci stiamo confrontando con il Consorzio di tutela su questo progetto. Il marchio è già conosciuto e apprezzato dai consumatori sia in Italia che all’estero e potrebbe veicolare la qualità anche di altri tagli che non siano quelli dei prosciutti. In questo modo il marchio potrebbe trainare la carne fresca e farne crescere il valore sul mercato».
Torniamo alla leva dell’indicazione d’origine.
«Nel corso della sessione plenaria del 12 febbraio scorso il Parlamento europeo ha adottato, a larga maggioranza, con 460 voti favorevoli, 204 contrari e 33 astensioni la risoluzione non legislativa sull’indicazione del paese di origine in etichetta per la carne contenuta nei prodotti alimentari trasformati. In questo modo, il Parlamento europeo ha sollecitato l’Esecutivo dell’Ue a rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine delle carni presenti negli alimenti trasformati per assicurare maggiore trasparenza lungo la filiera alimentare e informare meglio i consumatori europei. Per noi allevatori italiani, qualora approvata, questa misura sarebbe importantissima dal momento che trasformiamo in salumi circa il 70% dei nostri maiali e far sapere al consumatore che quel salume è fatto con carne suina italiana o di altri Paesi darebbe finalmente trasparenza, sarebbe il suggello delle mille “battaglie” fatte da Coldiretti».
Qualche passo in avanti però si è fatto in questa direzione. Non si parla proprio di origine però…
«Da aprile 2015 è scattato l’obbligo Ue di indicare per la carne fresca che l’animale è stato “allevato” in Italia, anche non c’è l’obbligo di indicare dov’è nato. Si tratta di un primo passaggio che pone in primo piano sempre l’origine nazionale della pratica di allevamento, ma deve essere integrata con l’obbligo di segnalare anche il Paese di nascita del suino. La decisione è stata presa da Bruxelles nel dicembre 2013».
Mi segnala un altro aspetto positivo per il comparto?
«Un’apertura all’ammasso privato per le carni suine. Il comitato di gestione della Commissione europea si sta muovendo in questo senso su richiesta dell’Italia per contrastare il calo dei prezzi legato anche all’embargo russo. Entrando nel dettaglio, è stata infatti approvata recentemente la bozza di Regolamento per lo stoccaggio privato di carni suine e prosciutti con l’obiettivo di eliminare un certo volume di prodotto dal mercato e quindi stabilizzare la situazione finanziaria degli allevatori. Il provvedimento prevede lo stoccaggio per una durata di 90, 120 e 150 giorni. Il Regolamento entrerà in vigore il terzo giorno successivo a quello della pubblicazione in Gazzetta ufficiale, presumibilmente dalla prima decade di marzo».
Altri passaggi importanti per il futuro della suinicoltura?
«Un accenno alle questioni da affrontare e sulle quali impegnarsi. In primo luogo occorrerà lavorare molto sulla genetica nella logica del rispetto del disciplinare delle produzioni Dop. Da ultimo, ma ancora tutto da costruire, un progetto per capire se si può incentivare lo sviluppo e la diffusione della suinicoltura nel Sud del nostro Paese perché, a nostro avviso, dobbiamo tutti impegnarci per offrire delle opportunità ai nostri giovani soprattutto nelle aree interne del Sud e la suinicoltura potrebbe rappresentarne una».