«La gratificazione economica, nell’allevamento di razze tradizionali, non è per niente garantita e non è nemmeno la prima motivazione che ci spinge ad andare avanti. Senza una dose di vera passione sarebbe difficile fare questo lavoro». La vede così Giuseppe Coscia, allevatore di razza Casertana nonché uno degli animatori della suinicoltura locale. Titolare di un patto di filiera realizzato già diversi anni fa, ora sostituito da un progetto più grande: estendere il marchio di riconoscimento, creato con quel progetto, a tutti gli allevatori non soltanto della Campania, ma anche di Lazio e Molise, come abbiamo raccontato sul numero scorso.
Passione nata per caso
Le storie dei suinicoltori di razze autoctone sono generalmente inusuali: mentre nell’allevamento tradizionale la discendenza da famiglie di suinicoltori o perlomeno di agricoltori è praticamente la regola, i piccoli numeri e i ridotti investimenti di questa zootecnia di nicchia lasciano spazio anche per chi arriva da altre esperienze. Come, per l’appunto, Coscia. «Mi sono laureato in materie economiche e finché non partecipai a un progetto per creare un e-commerce di prodotti tipici campani non avevo certamente pensato di fare l’allevatore. Non ero però un alieno: mio nonno gestiva un vecchio negozio di alimentari, di quelli con granaglie e legumi nei sacchi e prodotti del territorio venduti sfusi», racconta.
La svolta, per lui, arrivò nel 2005. Il progetto di commercio elettronico, uno dei primi in Italia, non decollò, ma spinse Coscia a trasformarsi da consulente in produttore. «Pensai che forse potevo mettermi a coltivare ciò che avevo in precedenza cercato di vendere», ci spiega. Acquistò così 20 ettari di terreno e creò “L’Ape e il Girasole”, azienda agricola a vocazione biologica. Fu inoltre tra i primi ad aderire al progetto di recupero della razza Casertana. «Ho il codice Anas 005 – ci dice con orgoglio – e credo di essere ormai l’unico superstite di quel primo gruppo che, quasi 20 anni fa, iniziò il recupero del suino casertano. Recupero che a dire il vero era partito già da qualche anno, grazie all’università di Caserta e al rinvenimento di alcuni capi in purezza. Grazie ai quali fu possibile, dopo parecchia selezione, ottenere dei riproduttori con un buon tasso di fedeltà ai canoni della Casertana originaria. Arrivare ad animali morfologicamente in linea ci è costato fatica e qualche rinuncia, ma alla fine penso che abbiamo ottenuto un risultato importante. La Casertana è una razza antica pienamente recuperata e, lo dico essendo di parte, a mio parere è anche una delle più belle tra le razze autoctone italiane, per proporzioni e aspetto».
Dal recupero al rilancio
I prossimi passi per la valorizzazione del genotipo dovrebbero sviluppare anche il lato commerciale, con la creazione di un marchio e un disciplinare di allevamento, come abbiamo raccontato sul numero scorso. È inoltre positiva la scelta di coinvolgere in questa iniziativa tutta l’area storica di produzione, che comprende, oltre alla Campania, il Basso Lazio e il Molise. «In pratica il territorio ricalca quello dell’antica provincia Terra di Lavoro, dunque Frosinone e Latina, la Campania e poi Isernia e Campobasso. Un’area su cui insiste una trentina di allevamenti di razza Casertana. Se tutti parteciperanno, sarà possibile dare un nuovo impulso ai nostri prodotti ma soprattutto tutelare chi lavora correttamente rispetto ai tanti casi di mistificazione».
Secondo Coscia, infatti, i prodotti di Casertana sono tutt’oggi oggetto di imitazioni che provocano un significativo danno economico. «Non soltanto alla Casertana. Il fenomeno del cosiddetto maiale Nero riguarda tutte le varietà tradizionali italiane. Siccome non è un nome tutelabile, chiunque può importare suini da qualsiasi angolo d’Europa, insaccarli e contrassegnare i suoi prodotti con l’appellativo di suino Nero o maiale Nero. Per questo motivo abbiamo lavorato, negli anni, per togliere l’aggettivo Nero dai riferimenti alla razza Casertana. Questo sebbene tradizionalmente i suini casertani fossero indicati come Neri o Negri. Tuttavia è un appellativo non tutelabile, per cui meglio abbandonarlo a vantaggio di qualcosa che ci caratterizzi e al tempo stesso ci appartenga».
Le ragioni per cui questi prodotti simil-tipici provocano tanti danni al tradizionale vero, secondo Coscia, risiedono soprattutto nella scarsa conoscenza che il consumatore medio ha di queste nicchie. «Una lacuna che origina anche nello scarso aiuto che abbiamo ricevuto dal settore pubblico, io credo. Non è da molto che la Regione interviene per diffondere informazioni sui prodotti tipici campani. Fortunatamente, ora sembra essersi impegnata in questo senso».
L’allevamento
La mandria dell’azienda Coscia è oggi composta da 28 scrofe in produzione e una quarantina di scrofette, le migliori delle quali vanno progressivamente a sostituire le fattrici troppo in là con gli anni. In tutto i capi sono circa 200, su un’area recintata di sette ettari.
La forma di allevamento ricalca da vicino quella illustrata molte altre volte quando si parla di varietà autoctone, ovvero lo stato semi-brado. Con la differenza che, all’interno delle recinzioni, Coscia ha realizzato un capannone per parti e svezzamento. «I primi capi vivevano allo stato quasi brado, in mezzo al bosco, con tettoie per il nido delle scrofe. Quando il loro numero iniziò a crescere usammo dapprima una stalla per ovini e successivamente investimmo – con un impegno economico notevole, dato il tipo di attività – in una porcilaia vera e propria, che riserviamo ai parti e alle prime settimane di vita dei suinetti. È una struttura con le migliori caratteristiche di benessere animale: ogni scrofa dispone di 20 metri quadrati, cosa che non molti possono vantare».
I suinetti nascono così in uno spazio riparato e controllato e qui restano fino allo svezzamento. «Hanno comunque accesso a un’area esterna, che mettiamo a loro disposizione soprattutto durante il periodo estivo. Dopo lo svezzamento formiamo i gruppi, che cerchiamo di rendere omogenei per peso e attitudine. Se vediamo che un animale è isolato all’interno del suo gruppo lo spostiamo in quello con data di nascita successiva. Dove non è raro che si comporti da ras», scherza Coscia.
Attorno all’anno di vita, i suini sono lasciati completamente liberi di muoversi nei sette ettari recintati, ricchi di querce e ulivi, che rappresentano lo spazio per il pascolo. Gli altri 14 ettari dell’azienda “L’ape e il Girasole”, spiega il proprietario, sono destinati ad attività agricole, sempre a basso impatto e con certificazione bio.
L’alimentazione è standard per un suino di questo tipo: la tradizionale dieta verde, composta da ghiande, erba e in questo caso olive, è quotidianamente integrata da una razione fornita dall’uomo. «Diamo loro granaglie in proporzione variabile a seconda della stagione, soprattutto per quanto riguarda la dose di mais, che non deve essere eccessiva nei mesi più caldi. Cerchiamo però di evitare la soia, sia per rispetto della tradizione sia per non correre rischi con gli Ogm. Non abbiamo certificazione biologica sull’allevamento, ma ritengo che se si fanno prodotti di un certo valore, un legame con la tradizione passata debba essere mantenuto, certificazioni o meno. Anche per una questione di rispetto del consumatore: quando si vende una mezzena a oltre 7 euro al chilo, è necessario fornire garanzie che vadano oltre i requisiti strettamente normativi».
La fertilità, trattandosi di una varietà antica, è medio-alta. «Abbiamo avuto anche una scrofa da 12 nati per parto, ma è stata una vera eccezione. La media è di otto nati e rotti; si arriva a 9 attorno al settimo parto. Considerando i casi di morte, soprattutto per schiacciamento, abbiamo 6,49 svezzati per parto. Non sono molti, ma i valori sono in via di miglioramento, grazie in particolare alla selezione che cerchiamo di operare sulle scrofe». La sanità è infine ricercata, continua Coscia, più con le vaccinazioni che con l’uso indiscriminato di antibiotici e mangime medicato.
Gli impieghi
Tutto ciò contribuisce a ottenere animali dalle caratteristiche organolettiche d’eccezione, sebbene di peso non eccessivamente elevato. Da essi si ricavano essenzialmente salumi, di ogni genere: dai pregiati prosciutti e capocolli, alla salsiccia, passando ovviamente per salame, lardo e pancetta.
«Il nostro obiettivo a medio termine è di trasformare e vendere direttamente tutta la produzione. Non essendoci ancora arrivati, vendiamo circa il 50% degli animali a salumifici, macellerie e bracerie. La destinazione naturale del suino casertano è la trasformazione in salumi, sia per il costo della materia prima, sia perché il mercato del fresco preferisce, di regola, prodotti più industriali ed economici. Tuttavia noto, negli ultimi tempi, un certo interesse anche per la carne fresca, legato soprattutto alla ristorazione e al fenomeno delle pizzerie gourmet, sempre in cerca di prodotti particolari». La casertana Pepe in Grani, proclamata più volte miglior pizzeria d’Italia, per esempio, figura tra i clienti abituali dell’azienda Coscia, ci dice il proprietario.
L’azienda sfrutta una rete distributiva già ben avviata, dunque, e che grazie alla creazione del marchio di autenticità della razza Casertana potrà avere nuovo sviluppo. «Abbiamo già aderito a tre consorzi di valorizzazione più vari comitati, lavorando con le università di Caserta e Napoli. Siamo ideatori del Patto di filiera ‘O Majale co ‘e sciuccaglie, che per tre anni ha cercato di valorizzare questa razza. Con l’ingresso di tutti i produttori in questa nuova iniziativa e il sostegno pubblico, grazie a Regione, Anas e associazione locale degli allevatori, mi auguro che la diffusione della Casertana abbia finalmente un impulso significativo».