Grassi ed energia. Senza che nessuna delle parti prenda il sopravvento sull’altra, ma cercando un equilibrio nella quasi indipendenza dei due settori. Che alla fine hanno in comune, al di là della collocazione, soltanto l’impiego dei reflui nel biodigestore. L’azienda della famiglia Bianchi, oggi amministrata da Umberto, ma nella quale ha ancora voce in capitolo il padre ed è già attivo il figlio, Mattia, è un perfetto esempio di integrazione tra un’attività tradizionale come la suinicoltura, sorretta da un’abbondante produzione agricola, e le nuove attività agro-energetiche, che si concretizzano nella produzione di biometano per autotrazione, da vendere direttamente a trasportatori e automobilisti grazie a una logistica fortunata. Racconteremo tutto, ma partendo dalla tradizione, ovvero dalla porcilaia.
Allevatori da generazioni
Umberto ha ereditato l’azienda dalla sua famiglia, che da decenni possiede la cascina Antegnatica, 200 ettari di Sau e due corpi di fabbricati, che danno vita a un allevamento di suini da 11mila grassi l’anno. «Abbiamo 500 scrofe a ciclo chiuso, su due siti. Il primo, qui nella sede principale dell’azienda, ospita la scrofaia e lo svezzamento. Quando gli animali arrivano a 60 kg di peso, passano invece nel sito di ingrasso, che è a un paio di chilometri da qui», ci spiega Umberto, presentandoci la sua attività.
Che è, al momento, di tipo assolutamente tradizionale: scrofaia con gabbie per il parto in capannoni a temperatura controllata e con grigliato in plastica, magronaggio e ingrasso su pavimento pieno con una parte di grigliato e, per tutti i box, accesso a un’area esterna, molto gradita nei mesi caldi. «In estate – conferma Bianchi – gli animali vivono all’aperto e finiscono con lo sporcare sul pavimento pieno. È però il solo momento in cui abbiamo qualche problema con la pulizia: per il resto sporcano sull’ultimo metro di box, dove c’è il grigliato, oppure all’esterno. Otteniamo così il doppio risultato di avere animali puliti e con piedi sani». La pavimentazione piena, continua Bianchi, torna utile anche per contrastare gli effetti del caldo: «Sento molti colleghi che lavorano su grigliato totale lamentarsi del calo di ingestione non appena le temperature salgono. Dipende, immagino, dall’ammoniaca che dalle fosse risale nei box. Con il nostro tipo di pavimentazione, non accade».
Razione casalinga
Come abbiamo letto, l’azienda ha, a sostegno dell’allevamento, una notevole superficie coltivabile. «Siamo attorno ai 200 ettari, che seminiamo a mais e grano. Facciamo pastone e granella secca, principalmente. Riusciamo così a essere autonomi sul mais e a produrre quasi il 50% del grano di cui abbiamo bisogno, mentre dobbiamo acquistare orzo e soia». Le materie prime sono lavorate in un impianto aziendale che produce tutti i mangimi impiegati nell’allevamento, dalla gestazione all’ingrasso. «Integriamo i cereali e la soia con nuclei acquistati da ditte specializzate e lavoriamo tutto nel nostro mangimificio. È una gran fatica, dico la verità, ma sicuramente ci permette di avere il controllo sulla produzione e sulle materie prime utilizzate». A occuparsi del mangimificio, ma anche dell’allevamento in generale, è Umberto Bianchi in prima persona. Gestisce l’azienda assieme al padre, ormai ritiratosi in pensione, al figlio Mattia, universitario e allevatore nei ritagli di tempo, e a sei dipendenti. «Non siamo molti ma ci diamo parecchio da fare», ci spiega.
Scrofaia tradizionale
Abbiamo visto in precedenza come l’allevamento sia improntato su canoni molto classici. Vale sicuramente per scrofaie e sale parto, dove troviamo le tradizionali gabbie di contenimento. Le quali, secondo Bianchi, risolvono soltanto in parte i problemi di schiacciamento. «Qualche caso lo abbiamo, ma credo sia fisiologico. Nulla di preoccupante, comunque. Abbiamo una genetica non esasperata, con scrofe da 16-17 suinetti per parto. Una cosa tranquilla, che ci permette di arrivare allo svezzamento senza grandi preoccupazioni». Il fatto che alla cascina Antegnatica si seguano forme di allevamento tradizionale non esclude però che si facciano anche test e sperimentazione. Per esempio, riguardo alle code. «Le lasciamo integre in una gabbia ogni 14, per vedere come si comportano i gruppi. Non abbiamo avuto grandi problemi: le morsicature sono assolutamente contenute. Dipende, credo, sia dalla genetica sia dagli spazi a disposizione, che sono comunque ampi, grazie anche all’area esterna. Non penso sarà un problema, insomma, tenere la coda lunga».
Biometano, una nuova strada
Non è assolutamente tradizionale, invece, la soluzione scelta da Bianchi per integrare il reddito aziendale attraverso le cosiddette agro-energie. Una lunga frequentazione, quella tra la sua famiglia e la produzione energetica, che risale al millennio scorso. «Mio padre aveva realizzato un impianto di biodigestione a freddo già nel 1996, all’epoca dei certificati verdi. Nel 2009 costruimmo invece un biodigestore da 500 kW, ovviamente per la produzione di energia elettrica. Ora, dopo 13 anni e con il contributo di 28 centesimi a kW/h prossimo alla scadenza, abbiamo deciso di convertirci al biometano». Non un biometano qualsiasi, tuttavia, ma con impianto di liquefazione e vendita diretta tramite una stazione di servizio. Il massimo, insomma, in termini di filiera corta, ma anche di complessità tecnologica. «Quando realizzammo il business plan, ormai quattro anni fa, ci parve la soluzione più redditizia, nonché la sola che ci permettesse di arrivare direttamente al consumatore finale, che era uno degli obiettivi di questo progetto. Non potendo fare vendita diretta della carne, che va ai consorzi di Parma e S. Daniele, facciamo insomma vendita diretta del metano» Il biometano rappresenta il futuro della digestione anaerobica, soprattutto dopo la crisi ucraina e i problemi di approvvigionamento di cui si parla da mesi. Fare biometano significa, in sostanza, produrre il comune biogas e successivamente, invece di bruciarlo in un motore per creare energia elettrica, raffinarlo fino a farlo diventare metano puro. Che a quel punto può prendere due vie: essere mandato in pressione e immesso nella rete nazionale dei metanodotti oppure essere liquefatto e trasportato con speciali cisterne che lo mantengono a una temperatora di circa 140 gradi sotto zero. Bianchi ha scelto quest’ultima via, tecnologicamente più sofisticata, con un’aggiunta: siccome la sua azienda dista poche centinaia di metri dalla Statale 9 (Lodi-Milano), ha deciso di aprire una stazione di servizio che rifornisca sia le auto, con metano allo stato gassoso, sia i mezzi pesanti, che richiedono invece metano liquefatto.
Un processo delicato
Nel ciclo di raffinazione e liquefazione, il biogas prodotto dall’impianto, con potenza attuale di 500 kW elettrici, che diventeranno tuttavia 1.300 a pieno regime, è dapprima ripulito da zolfo e Voc (composti organici volatili) e poi inviato all’impianto di raffinazione vero e proprio. Qui il gas, che contiene circa il 45% di anidride carbonica, passa in una serie di filtri a membrana che estraggono la CO2 fino a ottenere metano puro al 99,5%. Se il gas fosse immesso in rete andrebbe già bene così, ma per poterlo rendere liquido occorre ridurre l’anidride carbonica allo 0,001% del volume. Un secondo processo di raffinazione ottiene questo risultato. Successivamente il metano è compresso ad alta pressione e poi fatto espandere: questo processo abbatte fortemente la temperatura e il freddo che si crea, catturato da uno scambiatore di calore, è usato per raffreddare il metano a circa -150 gradi centigradi, temperatura a cui risulta liquido. Il prodotto è stoccato in una cisterna ad alto isolamento termico, pronto per rifornire i Tir o per essere trasportato altrove con un’autocisterna. «A regime stimiamo una produzione di circa 6 tonnellate al giorno di metano liquefatto – il cosiddetto Gnl, spiega Bianchi – sufficiente a rifornire 25 camion. Il gas che non venderemo al dettaglio sarà caricato in cisterna e acquistato da un’azienda del settore energetico. È un progetto in cui crediamo e che ci è costato quattro anni di lavoro e parecchi ritardi dovuti alla burocrazia. Anzi, se non fosse stato per le continue proroghe del decreto biometano nell’era del Covid, probabilmente non saremmo riusciti a realizzarlo. È triste dover constatare che la burocrazia rappresenta il vero freno alle iniziative imprenditoriali e allo sviluppo di un settore che, soprattutto in questo periodo, è strategico per il Paese».
Per questo motivo, Bianchi non ripone eccessiva fiducia nel nuovo decreto sul biometano, che elargisce generosi contributi – fino al 40% a fondo perduto – per la realizzazione di nuovi impianti. «È un incentivo importante, tuttavia non sono così sicuro che porterà allo sviluppo di nuovi impianti come si prevede. Se non snelliscono la burocrazia che gravita attorno a questo settore, molte aziende agricole si faranno scoraggiare e non inizieranno nemmeno l’iter. E sarebbe un peccato, perché si potrebbe creare una rete diffusa per la produzione di gas naturale da fonti rinnovabili, ambientalmente sostenibile e preziosa in momenti in cui il gas fossile di provenienza estera è molto difficile da trovare».