Da gennaio 2022, quando si è registrato il primo caso di Peste Suina Africana nel cinghiale in nord Italia, si è posta una crescente attenzione nei confronti della tematica “biosicurezza”, che rappresenta ad oggi una delle principali strategie di difesa delle aziende suinicole nei confronti di questa malattia. A tal riguardo, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, allevatori suinicoli e veterinari sono stati coinvolti a tempo pieno nella revisione delle misure di biosicurezza da mettere in atto nelle aziende suinicole e nella redazione dei piani di biosicurezza. Questa attività ha imposto di analizzare in maniera più critica l’organizzazione strutturale e gestionale delle varie aziende, consentendo di scoprire diversi punti critici che prima di questo periodo erano stati sottovalutati o affrontati con superficialità. Tra questi, vi è sicuramente l’igiene dell’allevamento e, più nello specifico, le cosiddette “procedure di pulizia e disinfezione” che sono un punto cruciale per la biosicurezza esterna e interna. Applicare correttamente un protocollo di pulizia e disinfezione dell’allevamento potrebbe sembrare a primo impatto un compito semplice e lineare; al contrario, si tratta di una procedura che presenta numerosissime variabili, che devono essere prese in considerazione se si vuole ottenere un risultato soddisfacente.
I batteri resistenti agli antibiotici rimangono nel capannone vuoto
L’applicazione di corrette prassi igieniche, accompagnate da adeguati programmi vaccinali e un buon management aziendale, possono ridurre l’esposizione degli animali agli agenti patogeni, andando ad incidere sull’impiego dei farmaci e, più nello specifico, degli antibiotici. Come evidenziato da diversi studi, è noto che gli allevamenti suini sono colonizzati da batteri resistenti agli antibiotici. Questi batteri non si ritrovano soltanto negli animali, ma anche sulle superfici e le attrezzature a contatto con essi. I più diffusi sono Staphylococcus aureus meticillino-resistenti (MRSA) ed enterobatteri produttori di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL-E) e vengono comunemente utilizzati come indicatori generici della presenza di antimicrobico-resistenza in un dato ambiente. In Germania sono state riportate prevalenze dal 52 al 73% per MRSA e dal 44 all’85% per ESBL. È stato inoltre dimostrato che dal 24% all’86% degli allevatori tedeschi di suini alberga MRSA a livello nasale, mentre dal 4% al 6% alberga ESBL-E a livello rettale (Köck et al., 2014; Fischer et al., 2017).
Uno studio dell’Università di Torino ha valutato l’efficacia delle procedure igieniche sul campo
Alla luce di queste considerazioni è nata la curiosità di indagare più a fondo l’efficacia delle procedure igieniche messe in atto dalle aziende presenti sul territorio. Nello specifico, uno studio dell’Università di Torino, dipartimento di Scienze Veterinarie, ha valutato l’impatto dei diversi protocolli igienici adottati negli allevamenti sulle cariche batteriche ambientali, utilizzate come indicatori generici di igiene. Gli indicatori utilizzati sono stati: carica mesofila totale, Enterobacteriaceae, Staphylococcus spp. e Enterococcus spp. Al contempo, è stata indagata la presenza di batteri antimicrobico-resistenti all’interno delle popolazioni batteriche isolate e ricercato un’eventuale correlazione tra la carica batterica totale e la presenza di colonie batteriche resistenti agli antimicrobici. I fattori di resistenza agli antimicrobici considerati sono stati: vancomicina-resistenza, meticillino-resistenza e presenza di carbapenemasi e beta-lattamasi.
Per condurre lo studio sono stati selezionati, con il supporto del distretto di Racconigi CN1, 20 allevamenti di suini da ingrasso (sito 3) localizzati in diverse province piemontesi: Torino, Cuneo e Vercelli. Ogni azienda è stata campionata in due momenti:
- dopo lo svuotamento dei locali di stabulazione degli animali (quindi con le strutture ancora sporche)
- e alla fine delle procedure di pulizia e disinfezione, prima dell’ingresso dei nuovi capi nell’allevamento.
Le analisi di laboratorio sono state effettuate presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. All’interno dell’allevamento, è stato scelto in maniera casuale un box rappresentativo, nel quale sono stati selezionati quattro diversi siti di prelievo:
- punto di abbeverata,
- punto di alimentazione,
- area di defecazione,
- materiali manipolabili.
Le superfici piane sono state campionate attraverso l’utilizzo di garze sterili. Gli abbeveratoi a succhiotto e i tubi di alimentazione liquida sono stati campionati mediante l’utilizzo di tamponi.
I batteri carbapenemi-resistenti spariscono dopo il lavaggio, gli altri no
Relativamente alla prevalenza dei batteri antimicrobico-resistenti, solo i batteri della categoria “carbapenemi-resistenti” hanno riportato un azzeramento delle cariche post-lavaggio. Diversamente, le altre categorie, che partivano da cariche batteriche già elevate prima del lavaggio, non hanno riportato riduzioni altrettanto soddisfacenti post-lavaggio. I batteri vancomicina-resistenti VRE (Enterococcus spp.), ad esempio, sono passati da una prevalenza del 49% pre-lavaggio al 26% post-lavaggio e gli ESBL dal 45% al 26%. I batteri meticillino-resistenti (ORSAB), costituiti principalmente da batteri del genere Staphylococcus spp., sono stati quelli che hanno evidenziato una minor riduzione nel post-lavaggio (da 55% a 45%), mantenendo elevata la loro prevalenza in allevamento.
Le resistenze antibiotiche però ci sono anche in ambienti puliti
Relativamente al secondo quesito che ci eravamo posti, ovvero se ci fosse correlazione tra cariche batteriche indicatrici di igiene ambientale e la presenza di batteri resistenti, sono stati osservati risultati talvolta contrastanti. In alcuni casi, più rari, il riscontro di colonie resistenti corrispondeva a cariche batteriche più elevate, soprattutto in fase pre-lavaggio, con una correlazione significativa tra batteri produttori di carbapenemasi OXA (n° colonie nell’ordine di 1-5) e cariche batteriche più elevate di Staphylococcus spp.
In molti altri casi è emerso, invece, che il riscontro di antimicrobico-resistenza corrispondeva a basse cariche batteriche ambientali, con una correlazione significativa tra il riscontro di cariche mesofile elevate pre-lavaggio ed assenza di batteri meticillino-resistenti (ORSAB). Al contrario, un elevato numero di colonie meticillino-resistenti era associato a basse cariche mesofile.
Quello che si è abituati a considerare pulito, non necessariamente è sufficientemente pulito
Alla luce di quanto è emerso dai risultati dello studio verrebbe spontaneo chiedersi: ma quindi più sporco è meglio? Ovviamente no! Ma quello che si è abituati a considerare pulito, non necessariamente è sufficientemente pulito, almeno se si tratta di batteri resistenti agli antimicrobici. Una possibile spiegazione al fatto che la carica di alcune popolazioni batteriche non si sia abbassata in maniera significativa dopo la disinfezione, potrebbe essere ricondotta al fatto che gli allevamenti campionati non abbiano utilizzato protocolli di disinfezione specifici e mirati ma procedure di routine, non sempre svolte con cura maniacale. I risultati ottenuti sembrano quindi suggerire che procedure standard non siano sempre sufficienti ad azzerare le cariche di queste categorie di batteri. Un altro fattore che potrebbe aver inciso sulla scarsa efficacia delle sanificazioni potrebbe essere un’aumentata resistenza dei batteri ai principi attivi presenti nei detergenti e disinfettanti, sia per l’acquisizione di fattori di resistenza specifici, sia per la capacità di alcuni batteri a produrre biofilm, che protegge il microrganismo dall’azione di questi prodotti. Inoltre, molti dei batteri che esprimono i fattori di resistenza ai disinfettanti sono anche produttori di biofilm, come ad esempio Staphylococcus spp. ed Enterococcus spp. Infine, non devono essere trascurate le complesse interazioni che possono intercorrere tra le diverse popolazioni batteriche presenti nell’ambiente in un dato momento: fenomeni di sinergismo e antagonismo possono svolgere un ruolo chiave nell’influenzarne la crescita e lo sviluppo su una determinata superficie.
Investire attenzioni sulla pulizia del proprio capannone
I risultati ottenuti nello studio evidenziano la difficoltà di trovare una risposta univoca. Sicuramente, un punto di partenza per migliorare l’efficacia della pulizia è l’individuazione di procedure specifiche e mirate, che derivano da una precisa osservazione dell’ambiente di allevamento e da una maggior attenzione alla formazione del personale. L’implementazione di queste misure potrebbe essere attuata anche attraverso prove di efficacia eseguite in autocontrollo mediante l’utilizzo di marcatori di igiene ambientale. Questi sforzi sono necessari per migliorare la salute degli animali che si allevano ma anche quella delle persone che lavorano in allevamento e di tutte le altre persone con cui queste vengono a contatto; nell’impegno comune di contrastare il più possibile lo sviluppo di una problematica sempre più rilevante che è lo sviluppo dell’antimicrobico-resistenza.
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