Spesso si parla degli allevatori come di una sottospecie di imprenditori che non essendo in grado di comprendere e gestire le dinamiche economiche, necessitano di una sorta di tutela e protezione da parte di organizzazioni lobbistiche, filantropiche o statali.
Questo approccio viene più volte percepito anche quando si parla di “certificazioni”, considerate un’imposizione da evitare e da cui essere protetti. Ma siamo sicuri che le certificazioni siano una sovrastruttura creata per appesantire e lucrare sul sistema zootecnico?
Potrebbero essere invece, se comprese e ben gestite, una opportunità?
Poiché, come sosteneva il professor Tarocco, riusciamo a vedere e quindi comprendere solo quello che conosciamo, rispolverando le nozioni apprese 25 anni fa mentre il sottoscritto faceva i primi passi nel mondo della “qualità”, proveremo a descrivere sinteticamente cosa si intende per certificazione, per poi analizzare se questo strumento può servire agli allevatori.
Cos’è una certificazione
“Certificare” deriva dal tardo latino (inizio sec. XIV ) certus, “certo” e del tema di facĕre, “fare” , ossia “fare”-“certo”, rendere certo, assicurare qualcuno. È evidente, quindi, da una parte l’antichità del concetto, che risale agli egizi e ai romani, e dall’altra quanto possa essere impegnativo assumersi la responsabilità di assicurare la “certezza”.
Tecnicamente e didatticamente, la certificazione è l’atto mediante il quale una organizzazione, di solito terza e indipendente, assicura che determinate caratteristiche di un prodotto, di un processo produttivo o di una organizzazione siano vere, ossia certe.
Quindi per “certificare” sono necessari 3 fattori base:
- Un documento che contenga i requisiti del prodotto da certificare; tale documento è detto standard (suoi sinonimi sono: disciplinare, norma o documento tecnico). In esso è descritto cosa si deve verificare e rendere certo;
- un’ organizzazione, detta organismo di certificazione, con competenze tecniche, strutturali e “morali” in grado di verificare i suddetti requisiti;
- un documento, detto schema di certificazione, che contenga le regole attraverso le quali l’organismo terzo deve verificare e certificare i requisiti.
Il processo di certificazione
Quando l’organismo di certificazione deve certificare, analizza il prodotto, processo o organizzazione per verificarne la conformità rispetto ai requisiti contenuti nello standard. Seguendo le regole e le tolleranze dello schema di certificazione, se esso risulta conforme, emette il certificato. Quindi quel “pezzo di carta”, spesso sminuito, detto certificato, è l’ultima fase di processo lungo, complesso e denso di responsabilità.
Per dare maggiore sicurezza al mercato, molto spesso, la corretta applicazione dello schema di certificazione è controllata a sua volta da un organismo di livello superiore detto Organismo di Accreditamento (ad esempio, Accredia in Italia) e lo schema viene detto accreditato.
Per valutare una “certificazione” è necessario quindi analizzare tutti e 3 questi fattori: la capacità dell’organismo di certificazione, la serietà e flessibilità delle regole, ma soprattutto i requisiti.
È dai requisiti, infatti, che capiamo a cosa serve quello schema di certificazione, qual è il suo obiettivo, la sua significatività e se e come potrebbe aiutarci.
Esiste poi una valutazione strategica che deve determinare:
- la visibilità e riconoscibilità, anche internazionale, dello schema di certificazione;
- se il mercato è disposto a riconoscere un valore alle caratteristiche che si vogliono enfatizzare;
- tutele in caso di eventuali contenziosi.
Esistono ormai schemi di certificazione sui più svariati aspetti:
- ambientali (Carbon footprint, Iso 14001, Iscc plus, Biologico ecc.),
- etici (Benessere Animale, SA8000, ecc.)
- sociali (Uso degli antibiotici)
- qualitativi (Dop, Iso 9001, ecc.).
La certificazione ha sicuramente un costo aziendale, che è quello organizzativo e che sicuramente è il più rilevante, ma ha anche un costo per l’attività di controllo, che di solito è il più evidente ma il meno rilevante. D’altra parte, le certificazioni possono avere anche indubbi vantaggi come la possibilità di aiutare a ritagliarsi fette di mercato remunerative o tutelarsi in caso di contenzioso.
Alcuni esempi di certificazione
Un esempio puramente didattico di “certificazione” che gran parte degli allevatori conosce è quella relativa alle “Dop”.
Nelle Dop, abbiamo:
- un disciplinare, che contiene i requisiti: cosa devono mangiare i suini, quanto devono pesare, quanto tempo deve stagionare il prosciutto, ecc.;
- un organismo di controllo, che effettua, per l’appunto, i controlli;
- un piano dei controlli e una serie infinita di decreti e circolari che descrivono come controllare, cosa controllare, quando farlo, ecc.
Altro esempio molto interessante e di grande attualità è quello del benessere animale.
In Europa, sul benessere animale esistono da anni schemi di certificazione privati, gestiti cioè da organizzazioni private, Ong e fondazioni (in tabella 1 sono riportati alcuni esempi di certificazioni in Europa), ma anche la certificazione Biologica e Global Gap contengono espliciti riferimenti al benessere animale.
La situazione in Italia
In Italia, esistono da tempo alcuni schemi di certificazione privati gestiti direttamente da organismi di certificazione. Il ministero delle Politiche Agricole e il ministero della Salute da alcuni anni stanno però perseguendo una strada alternativa attraverso lo schema unico di stato Sqn-Ba , Sistema Qualità Nazionale – Benessere Animale. Ad Agosto del 2022, con decreto interministeriale sono state definite le regole di certificazione, ma al momento non sono disponibili i requisiti. Tuttavia, nel decreto è stato inserito il principio secondo il quale il Sqnba dovrà essere l’unico schema di certificazione utilizzabile quando si vogliano utilizzare informazioni su benessere animale, uso dei farmaci e biosicurezza.
Questo principio, all’apparenza trasparente, in realtà potrebbe precludere molte opportunità commerciali per l’export e non potendo bloccare la libera circolazione delle merci nell’Ue, potrebbe d’altra parte permettere l’ingresso di prodotti (finiti e semilavorati) da altri Stati membri con certificazioni o dichiarazioni commercialmente più appetibili.
Perché certificare?
Il sottoscritto ricorda bene che, in occasione di un convegno sul benessere animale, un allevatore fece un intervento e con una improbabile convinzione si scagliò contro politici e organizzazioni allevatoriali, richiedendo che i consumatori venissero “educati” – utilizzò proprio questo termine – a consumare ciò che allevatori producevano senza troppe richieste ed esigenze.
Vediamola da un’ottica diversa: tutti gli allevatori hanno una o più automobili, e probabilmente saranno tutte diverse coerentemente con la molteplicità delle opzioni per modello, motorizzazione, colori e optional che garantisce quel settore. Non è chiaro, quindi, per quale motivo il consumatore italiano, o peggio, internazionale, dovrebbe accettare e accontentarsi del Sus “suino unico di stato”.
Purtroppo o per fortuna, in Italia come nel resto del mondo industrializzato, le esigenze dei consumatori e altre parti interessate sono sempre più diversificate e sempre maggiori sono i dubbi da parte dei consumatori sulla veridicità delle affermazioni dei produttori. Di conseguenza, sempre più diversificate sono le richieste di controlli e certificazioni.