Dopo esserci occupati, anche ripetutamente, di tutte le razze autoctone riconosciute da Anas e dunque ormai salve dall’estinzione, sebbene vantino numeri talvolta ancora ridotti, questo mese prendiamo in esame un recupero ancora in corso, anche se in stato già avanzato. Ci riferiamo al Suino Nero delle Alpi, selezionato a partire da tre ceppi diversi risalenti ad antiche razze delle Alpi Centrali e Orientali. A quasi dieci anni dai primi ritrovamenti, oggi gli allevatori custodi dichiarano circa 55 siti produttivi, con un centinaio di riproduttori provenienti da tre linee di scrofe e quattro di verri. Non moltissimo, ma dovrebbe bastare a garantirne la sopravvivenza. Abbiamo scritto che il recupero è ancora in itinere in quanto, sebbene si sia arrivati a una buona diffusione su un ampio territorio, che va dalla Valtellina all’Austria passando per il Veronese, il maiale alpino non è stato ancora riconosciuto dall’Anas e dunque resta, formalmente, un esperimento. «In realtà, non siamo stati riconosciuti perché non abbiamo ancora fatto domanda. Un passo che, a mio modesto parere, dovremo presto o tardi compiere. Anzi, più presto che tardi», esordisce Massimo Paganoni, coordinatore del progetto per Valtellina e Valchiavenna. «Se non altro – prosegue –, perché gestire una iniziativa di questo tipo come privati cittadini non è facile, mentre se vi fosse un riconoscimento ufficiale i registri e le visite nelle aziende sarebbero portate avanti da un ente pubblico: tutta un’altra cosa, insomma».
Dieci anni di storia
Come tutto il resto dello Stivale, anche la montagna aveva le sue razze autoctone. Animali robusti, ovviamente di colore scuro, con una cotenna spessa a sufficienza da reggere i rigori del clima alpino. “Si trattava di animali adatti alla vita all’aperto, mentre le razze moderne, senza pigmentazione e con la pelle rosa, non sopportano l’esposizione ai raggi Uv della montagna”, si legge sul sito di Pro Patrimonio Montano, già Rete delle Razze Alpine, l’associazione che si è fatta carico del recupero. I maiali, continua Patrimont (acronimo dell’associazione) accompagnavano gli allevatori in alpeggio, per sfruttare il siero di latte avanzato dalla caseificazione in alta quota. Qui trascorrevano tra i 90 e i 100 giorni, nutrendosi dei frutti della montagna e occupando i pascoli che non interessavano ai bovini, in quanto troppo magri. “Erano portati sui pascoli nitrofili, di scarso valore per le vacche da un punto di vista nutrizionale, qua con i loro scavi contrastavano la crescita delle acetose e dissodavano le aree di pascolo compattate dal bestiame”, continua il sito. “Anche oggi qualche allevatore porta i maiali in alpeggio – si legge sempre su Patrimont.org –, ma trattandosi di razze intensive non sono animali adatti alla montagna: troppo lunghi e bassi di statura per muoversi agevolmente, troppo sensibili alle variazioni climatiche per vivere all’aperto”.
La storia del Suino Nero delle Alpi inizia nel 2013, quando in provincia di Como si scoprono, presso una fattoria didattica, alcuni animali che presentano ancora i tratti degli antichi suini autoctoni. Grazie all’interessamento di Alessio Zanon, veterinario dell’università di Parma ed esperto di razze rare, già parte attiva nella nascita del Nero di Parma, questi pochi esemplari sono prelevati e trasportati in Valtellina, dove si presume vi fosse il ceppo originario della razza Valtellinese. Siccome il loro numero è ridotto e un incrocio esclusivo darebbe luogo a problemi di consanguineità, si includono nel progetto altre due linee genetiche. «Grazie anche alle segnalazioni dei veterinari del luogo, furono trovati due vecchi esemplari in val Chiavenna, ma fu possibile ottenere una prole soltanto dalla linea maschile. Successivamente, fu rinvenuto un esemplare in val d’Ultimo (Alto Adige, ndr) la cui genetica fu inserita nella progenie degli animali alto atesini e austriaci», riassume Paganoni. Si arriva così a ottenere tre linee di scrofe e quattro di verri, appartenenti a ceppi che discendono dalle antiche razze Valtellinese, Samolaco e dell’Alto Adige, con probabili innesti di suino dei Grigioni. A questo punto, l’obiettivo diventa quello di formare una razza mista utilizzando la genetica superstite, per non disperdere del tutto un antico patrimonio. “Il suino nero delle Alpi per necessità sarà una razza composta di animali residui di veri maiali alpini. Il progetto ha il traguardo di presentare un animale adatto per il mercato, che ci offra la prospettiva di un alpeggio sostenibile”, si legge nel progetto di recupero.
Un ultimo passaggio importante è quello burocratico: nel 2017 nasce l’associazione Pro Patrimonio Montano, che ha una sede principale a San Gallo (Ch) e varie sezioni. Quella altoatesina è presieduta da Kurt Kusstatscher, mentre Paganoni è a capo del nucleo valtellinese.
Lo stato dell’arte
Oggi il Suino Nero delle Alpi conta un discreto numero di riproduttori e una diffusione importante, che va dalla Valtellina all’Alto Adige passando per il Veronese e sconfina poi in Austria, Germania e Svizzera. «Questa distribuzione è incoraggiante, anche ai fini della sicurezza biologica: con la Peste suina sempre in agguato, essere diffusi su un territorio ampio ci mette relativamente al riparo in caso di epidemie che dovessero colpire uno dei territori», fa notare Paganoni.
Cerchiamo allora di conoscere meglio questa varietà, sempre con l’aiuto della sezione lombarda di Patrimont. «Morfologicamente sono animali adatti allo stato brado: alti e non troppo allungati nel corpo, con buoni arti e capacità di spostarsi su lunghi percorsi. Hanno la cotenna nera, talvolta rossiccia, o anche rossa maculata in nero. Le setole sono lunghe e fitte e questa caratteristica fu probabilmente tra le cause che portarono ad abbandonarne l’allevamento, poiché una volta abbattuti sono di difficile pulizia. Naturalmente, con i sistemi automatizzati moderni, questo problema è in gran parte caduto».
Non sembra essere invece un limite il tasso di accrescimento, che solitamente penalizza le razze autoctone rispetto a quelle moderne. «In realtà alcuni test, sicuramente senza rigore scientifico, hanno dimostrato che questi suini crescono tanto rapidamente quanto il Large White, se nutriti nello stesso modo. Tuttavia, è fuori dubbio che questo non sia il miglior sistema di allevamento: il suino delle Alpi deve vivere all’aperto, almeno allo stato semi brado, cibandosi di ciò che trova sul terreno. Per esempio, è molto ghiotto d’erba, anche se naturalmente non può essere l’elemento principale della sua dieta. Gli allevatori dovrebbero nutrirlo con alimenti coltivati direttamente, o con sottoprodotti come scarti orticoli e simili. Integrando un’alimentazione tradizionale con la vita all’aperto si ottengono le peculiari caratteristiche organolettiche che lo rendono meritevole di essere allevato».
Perché, continua Paganoni, alla fine la ragione principale per tornare a una razza antica è proprio questa. «Quando l’impegno per recuperare i suini delle Alpi divenne importante, ci chiedemmo se non stessimo lavorando per niente, visto che queste razze erano state abbandonate decenni fa dagli allevatori. Ma dopo le prime macellazioni ci rendemmo conto che la differenza con i suini moderni esiste ed è significativa». Il maiale delle Alpi ha, come un po’ tutte le varietà antiche, una carne molto più rossa, talvolta marezzata, ma soprattutto con parti bianche e rosse ben separate. «Dopo le prime trasformazioni capimmo quel che ci avevano detto i vecchi che siamo andati a intervistare, ovvero che la carne di suino nero è già scelta ancor prima di cominciare. In effetti, le parti magre sono ben localizzate e separate dal grasso. Che è sì importante, ma non contamina i muscoli, se gli animali hanno vissuto all’aperto e quindi si sono mossi molto».
Dal punto di vista nutrizionale, l’alimentazione con erbe di montagna (piantaggine di monte, fienarola delle Alpi, timo, millefoglio e altre) conferisce alla carne dei suini, secondo Patrimont, un gusto unico. L’assunzione di foraggio di pascoli alpini provoca inoltre l’accumulo di preziosi acidi grassi omega 3: secondo alcuni studi, si ha un rapporto 1,4 volte migliore tra gli acidi grassi saturi e insaturi.
Allevamento e impieghi
Secondo Paganoni, la forma migliore di allevamento è quella allo stato semi-brado, non potendosi avvalere, per questioni legislative e sanitarie, dello stato brado. «Sarebbe interessante, per esempio, far pascolare questi animali nelle stoppie del grano o in aree boschive marginali, che sarebbero così sfruttate e mantenute pulite da un rimboschimento selvaggio».
Se la tipologia di allevamento è in parte ancora da costruire e dipende molto dalle attitudini dell’allevatore, gli impieghi sono invece quelli della tradizione, arricchiti da qualche preparazione dovuta alla globalizzazione dei consumi. «Un esempio è quello del prosciutto, che nelle nostre valli non si faceva. Almeno, non nella versione con l’osso. Oggi invece, molti conservano almeno la noce, per andare incontro ai gusti di tutti. A ogni modo – prosegue Paganoni –, il prodotto tipico qui in zona è il salame, fatto con un misto tra carne di suino e di manzo. Ci sono poi le salsicce di sangue, i cotechini di varie taglie, semplici o aromatizzati alla grappa, il cacciatorino e infine alcuni salumi caratteristici del territorio e poco diffusi, come la mortadella di fegato, la salsiccia di sangue o la Rösa, che in val Gerola prende il nome di Andü».
La Rösa
La Rösa è un salume tipico di diverse aree valtellinesi, il cui nome cambia a seconda della localizzazione. Si chiama appunto Rösa nella zona di Morbegno, per esempio, ma Andü o Andütul in Val Gerola. Elemento caratterizzante, in ogni caso, è la presenza di un pezzo di guanciale all’interno della realizzazione. In pratica si prende una striscia di guanciale, vi si praticano dei tagli lungo la superficie e la si inserisce in una vescica di suino o di bovino, riempendo poi lo spazio rimanente con pasta di salame. Ne deriva un insaccato che, una volta affettato, presenta al centro una rosa di grasso di guanciale, circondata da salame comune. In altre aree, il guanciale è invece tenuto all’esterno, vicino alla pelle, mentre il salame occupa la parte centrale dell’insaccato.