«La Regione Lombardia sta proseguendo il proprio percorso per la ridefinizione delle zone vulnerabili ai nitrati. Era un provvedimento doveroso nei confronti degli agricoltori, per decenni purtroppo ingiustamente additati come gli unici responsabili dell’inquinamento da azoto nitrico. Noi abbiamo cercato di fare chiarezza».
Così l’assessore all’Agricoltura della Lombardia, Gianni Fava (a sinistra nella foto), spiega la politica perseguita dalla Regione, in difesa di un’intera categoria, “sacrificata agli inizi degli anni Novanta sugli altari dell’Unione europea, dove è totalmente mancata una visione strategica del futuro dell’agricoltura e si è preferito scaricare tutte le colpe sulla zootecnia, senza minimamente tenere conto dell’inquinamento dovuto dagli insediamenti civili e industriali”.
Assessore Fava, avete adottato un’impostazione scientifica, che risultati avete raggiunto?
«Abbiamo visto che l’impostazione delle zone vulnerabili adottata nel 2006 era basata su dati errati. Non si era tenuto conto, molto banalmente, delle caratteristiche pedologiche del suolo e si erano tracciate aree vulnerabili solo sulla carta, osservando i corsi dei fiumi e basta. Così non era accettabile. Per questo ho ritenuto doveroso, come elemento prioritario, affidare l’incarico all’Università di Milano, alla luce anche dei ritardi nell’indagine commissionata dal ministero dell’Ambiente a Ispra».
Che cosa è stato inserito fra i criteri della ricerca scientifica?
«Siamo partiti da alcuni presupposti che non potevano più essere ignorati e cioè dai grandi progressi ottenuti nelle tecniche di gestione, trattamento e distribuzione degli effluenti. Risultati che sono stati applicati operativamente nelle aziende zootecniche. In particolare, gli approfondimenti di conoscenza sono stati sviluppati su fattori quali la vulnerabilità idrogeologica dei territori, la capacità di attenuazione del suolo dei fenomeni di percolazione dell’azoto, la vulnerabilità specifica (dinamica dell’azoto nei sistemi suolo-clima-colture) e la capacità di autodepurazione delle falde (denitrificazione), oltre alla valutazione dell’origine dell’azoto nelle acque».
Da lì come vi siete mossi?
«Ci siamo mossi su più livelli, per arrivare a definire la revisione della vulnerabilità delle acque sotterranee. È stata individuata una nuova metodologia di valutazione della vulnerabilità del territorio denominata Weights of Evidence (WofE) con il supporto scientifico dell’Università di Milano. Poi è stato realizzato lo studio della vulnerabilità delle acque di superficie tramite la Direzione generale dell’Ambiente e l’Arpa. Coinvolto l’Ersaf con i dati della rete Armosa».
Poi Regione Lombardia ha coinvolto anche il Cnr e l’Università di Pavia.
«Sì. Volevamo conferme e approfondimenti, analizzando gli isotopi per valutare la provenienza dell’azoto nelle acque. La ricerca ha individuato la compresenza di nitrati di origine diverse (con impatto significativo del carico civile) che appare strutturale in tutto il bacino del Po. Lo studio ha inoltre evidenziato che in tutta la bassa pianura (che è in generale caratterizzata da livelli di nitrati nelle falde tendenzialmente bassi) avvengono significativi processi di denitrificazione. Anche nelle acque superficiali, a loro volta oggetto di indagine, è emersa una origine mista, civile e zootecnica, dei nitrati presenti: tuttavia le concentrazioni sembrano essere fortemente e prevalentemente condizionate dalla interazione esistente tra falde e acque superficiali più che da fenomeni diretti di contaminazione di queste ultime da terreni agricoli».
Qual è il responso?
«Il risultato per molti aspetti è positivo, nel senso che assegna all’agricoltura e alla zootecnia una responsabilità nell’inquinamento da nitrati, pari all’11% sul totale. Un bel passo in direzione della giustizia, se si pensa che prima si è sempre detto che l’eutrofizzazione delle acque del Mare Adriatico era causata esclusivamente dagli insediamenti zootecnici. Tuttavia, chi pensava di liberare automaticamente tutti i terreni dal vincolo della vulnerabilità, perché le analisi scientifiche hanno sì ridisegnato le zone, ma se ne hanno alleggerite alcune, ne hanno talvolta ricomprese di nuove».
Chi dovrebbe trarne beneficio?
«Siamo in fase di definizione e mi sembra prematuro segnalare i comuni che si toglieranno il marchio di zona vulnerabile ai nitrati. Posso però anticipare che il distretto della Lombardia sud-orientale, che storicamente ha il maggior carico di capi allevati, dovrebbe trarne beneficio in termini di aree liberate dal vincolo. Va detto, però, che se non avremo più nell’elenco alcuni comuni fra quelli obbligati a non oltrepassare il carico massimo di 170 kg di azoto per ettaro all’anno, purtroppo altri entreranno nella lista, anche se questa volta su base scientifica e non su elucubrazioni per lo più casuali o inconsapevoli».
Quali sono le prossime tappe?
«Regione Lombardia si sta muovendo su due livelli. Uno interno, con una proposta della Direzione Generale dell’Agricoltura ai colleghi dell’Ambiente, in modo da definire una nuova designazione delle zone vulnerabili ai nitrati che consente di ampliare le aree di protezione, nelle zone ove sono ricomprese le acque più impattate dai nitrati e cioè le aree occidentali della pianura lombarda, riducendo nel contempo la presenza di zone vulnerabili nelle aree sud-orientali della pianura lombarda, dove le acque risultano di qualità migliore in base ai dati di monitoraggio forniti da Arpa».
E poi?
«E poi stiamo proseguendo il lavoro per ottenere la proroga della deroga nitrati, muovendoci insieme alla Regione Piemonte, che ha confermato la volontà di proseguirne l’applicazione. La procedura prevede tre passaggi. Il primo momento ha riguardato la presentazione dello situazione delle acque e dell’applicazione della direttiva nitrati e della deroga. Il secondo, che avverrà a fine giugno, riguarderà i contenuti del Programma d’azione, mentre il terzo è previsto nell’autunno e riguarderà i contenuti della deroga stessa».