«Se non mettiamo in piedi una strategia efficace nel bloccare la diffusione della malattia che avverrà la prossima estate, saremo veramente in guai seri». Così dichiarava all’inizio dell’emergenza Vittorio Guberti, Medico Veterinario e Ricercatore per l’Ispra a Bologna, nonché membro dell’Unità Centrale di Crisi contro la Psa (Peste Suina Africana) istituita preso il Ministero della Salute. Lo abbiamo intervistato di nuovo, a più di un anno di distanza, per capire come si è evoluta la situazione in questi mesi, cosa è stato fatto e perché.
Dott. Guberti, la nostra ultima intervista risale a febbraio 2022. Cosa è cambiato da allora?
«In questi mesi l’area infetta in Liguria e Piemonte si è quasi triplicata. Dopo sette mesi, Roma è tornata infetta all’interno del raccordo anulare e abbiamo due nuove aree infette che, grossolanamente, possiamo individuare nell’Aspromonte, in Calabria, e Parco del Cilento, in provincia di Salerno. La situazione più preoccupante riguarda comunque l’area di Piemonte-Liguria. Direi che il quadro non è migliorato».
Secondo lei perché a Roma è ricomparso il virus, nonostante l’accurato monitoraggio della malattia che è stato attuato?
«Io credo che siano tutte nuove introduzioni, non solo a Roma, ma anche nelle altre aree che ho citato. Non penso che il virus sia sfuggito ai veterinari e ai servizi faunistici dell’area di Roma. Credo che sia stato reintrodotto. E questo lo dico perché sono state fatte due ricerche attive delle carcasse su tutto il territorio da parte del personale delle aree protette della Regione Lazio, poco prima di ritrovare -recentemente- ancora animali morti; non c’erano carcasse di cinghiale nel territorio. La mia ipotesi è che ci siano dei flussi di materiale infetto, e non mi riferisco al camionista che arriva da un Paese infetto e getta il panino al salame dal finestrino. È molto improbabile avere queste reintroduzioni del virus in un così breve periodo senza pensare a dei flussi di materiale infetto che lo hanno portato qui; i camionisti dei Paesi infetti viaggiano in tutta Europa e solo l’Italia ha avuto tutte queste introduzioni».
Che fine hanno fatto le recinzioni la cui costruzione era stata programmata un anno e mezzo fa?
«Non sono ancora state terminate. E diverse sono state ultimate quando il virus era già fuoriuscito dal tracciato dell’area dentro alla quale le recinzioni stesse avrebbero dovuto mantenerlo. Secondo il piano di eradicazione, le recinzioni avrebbero dovuto essere installate a est e a ovest delle autostrade che percorrono Piemonte e Liguria: a ovest per proteggere Cuneo e Savona e a est a protezione di Pavia, Piacenza e i territori verso la Toscana. Peraltro, l’infezione a giugno 2023 è stata riscontrata per la prima volta a Pavia, quindi è chiaro che il virus continua a espandersi. È importante sottolineare che le recinzioni non hanno funzionato per due motivi: in primo luogo, le reti non sono state messe nei tempi previsti. L’Italia aveva presentato a Bruxelles un piano di eradicazione che prevedeva di terminare le recinzioni a luglio 2022. Siamo quasi a luglio 2023 e ancora non sono state completate. Inoltre, una volta terminate le recinzioni si sarebbero dovute fare delle azioni specifiche sia dentro sia fuori le aree recintate, che ovviamente sono state realizzate in modo assolutamente parziale. Di fatto, invece che contenere la malattia e prevenirne la diffusione, non abbiamo fatto altro che seguirla e vedere dove andava».
Quali recinzioni sono state completate entro i termini previsti?
«Nessuna, anche perché dovevano essere terminate a luglio 2022 e la loro costruzione è iniziata a giugno 2022. In pratica, abbiamo chiuso la stalla dopo che i buoi erano scappati».
Quale pensa possa essere la causa della comparsa del virus in Campania e Calabria?
«Nessuno lo saprà mai. In Calabria, oltretutto, i focolai di malattia sono stati trovati a 30 chilometri di distanza l’uno dall’altro, ciò significa che il virus è stato introdotto molto tempo prima di essere rilevato. Questo ci ricorda il focolaio del Piemonte-Liguria, dove il virus è stato presumibilmente introdotto all’inizio di agosto 2021, mentre è stato individuato ai primi di gennaio 2022. Sono passati cinque mesi prima che capissimo di avere l’infezione in casa, questo ha determinato una grande area infetta difficile da gestire, con misure di controllo che hanno scontentato molte categorie, come ad esempio i cacciatori, la stessa cosa sembra avvenire in Calabria.
Per quanto riguarda la Campania, gli studi sono ancora in fase preliminare, ma pare che il virus sia diffuso a est e ovest dell’autostrada del Mediterraneo, per cui anche in questa regione la malattia sembra avere già percorso diversi chilometri. Siamo solo all’inizio e col tempo avremo modo di capire meglio cosa è avvenuto».
Secondo lei quali sono le cause di tutti questi ritardi nell’individuazione e di conseguenza nella gestione della malattia?
«Secondo me non c’è abbastanza attenzione nel riportare la presenza di carcasse di cinghiale alle autorità competenti e ai servizi veterinari. Non è possibile che siano segnalate così poche carcasse; ricordiamo che la malattia uccide il 95% dei cinghiali colpiti. Alcune categorie sembrano essere riluttanti a riportare la presenza di carcasse, perché le aree infette vengono poi interdette a molte attività, sia ludiche sia economiche».
Quali saranno i prossimi passi a livello nazionale?
«Da febbraio di quest’anno è stato nominato un nuovo Commissario Straordinario alla Peste Suina Africana, il dott. Vincenzo Caputo, Direttore Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche. Immagino che il Dr. Caputo si appresti a ridefinire un piano di eradicazione della Psa, che al momento non abbiamo, né per l’area del Piemonte-Liguria, né tantomeno per i focolai della Campania e della Calabria. Il piano di eradicazione per Piemonte e Liguria è stato pensato a marzo/aprile del 2022, periodo in cui il virus ha iniziato a diffondersi, in 15-16 mesi l’area coinvolta dall’infezione è triplicata includendo piccole porzioni sia dell’Emilia sia della Lombardia. A mio parere sarebbe necessario rielaborare un buon piano di gestione della malattia per tutte le aree infette, anche perché al momento abbiamo solo ordinanze commissariali e ministeriali, che non sono veri strumenti di eradicazione, ma strumenti per attuare immediate misure di controllo in attesa della stesura e realizzazione del vero e proprio piano di eradicazione; misure applicabili in Piemonte non è detto lo siano anche in Calabria o Campania».
E se non si riuscisse a fermare il virus? Qual è il piano B?
«C’è una nuova legislazione, messa a punto dalla Commissione Europea, che permette ai Paesi infetti di mantenere un certo livello di commercio. Il problema è che tale livello di commercio viene mantenuto sulla base di deroghe che possono essere concesse solo a seguito di stringenti controlli con costi molto elevati. Per cui, ci si può immaginare che nelle aree infette dal cinghiale (diciamo solo dal cinghiale, augurandoci che non venga coinvolto il maiale) ci sarà sicuramente una tendenza alla diminuzione nel numero di allevamenti e continueranno ad operare solo quelli con un livello di biosicurezza molto elevato coadiuvati da servizi veterinari molto efficienti, in grado di garantire una corretta e uniforme applicazione delle deroghe. Rimane il problema dei costi di queste deroghe: bisognerà capire chi dovrà sostenerli, se gli allevatori o il servizio sanitario nazionale, bisognerà assumere più veterinari, eccetera.
Se sfortunatamente verranno coinvolti i grandi distretti suinicoli, lavorare in deroga avrà costi altissimi.
Per quanto riguarda i piccoli allevamenti a gestione familiare, le filiere locali di nicchia, gli allevamenti con un livello di biosicurezza inferiore, se il virus li raggiunge saranno destinati all’estinzione.
Di fatto, organizzandosi, si potrà trovare un modo per continuare a commerciare, ma sarà appunto un sistema limitato, costoso, basato su deroghe con un livello di applicazione limitato. Ci sarà quindi la possibilità di sopravvivere, ma difficilmente di vivere come in un’area indenne. Sarà una situazione pesante soprattutto per aree come la provincia di Cuneo, l’Emilia-Romagna, la Lombardia, che hanno la densità di suini maggiore in Italia. È un problema che va affrontato in maniera tecnica, ma anche politica per capire chi si accollerà i costi di queste deroghe, come funzioneranno i servizi. La strategia B è questa: convivere con l’infezione e permettere a coloro che lavorano nel settore di continuare a fare gli allevatori, i macellatori, e così via. Non sarà affatto semplice e dovremo prepararci».
Pensa che siamo ancora in ritardo coi tempi?
«Noi siamo sempre in ritardo, anche perché confondiamo il problema Psa con i danni da cinghiali all’agricoltura e con la caccia. C’è troppa disparità di attenzione tra le diverse questioni. Il Belgio per eradicare la Psa ha speso 300 euro a ettaro. Applicando gli stessi costi al territorio italiano, quando l’infezione interessava ancora solo Liguria e Piemonte, sarebbero serviti complessivamente 100 milioni di euro, che non è tanto: basti pensare che per l’influenza aviaria, solo nell’inverno del 2021-22, sono stati spesi circa 132 milioni di euro. Ovviamente, più si allarga l’area infetta e più aumentano le spese. In particolare per quanto riguarda le province con più maiali. L’impatto economico della Peste in Emilia e in Lombardia è completamente diverso da quello in Calabria, oppure se il virus dovesse arrivare in Sicilia. La Sicilia, ad esempio, ha meno maiali di quanti ce ne sono in un solo allevamento industriale in Lombardia. Senza nulla togliere alla gravità della situazione generale e al diritto di ogni allevatore di operare in aree indenni, rimane il fatto che il focolaio Piemontese-Ligure è il più pericoloso in quanto attorno ad esso si trovano 6 milioni di maiali.
Il focus primario dovrebbe essere l’eradicazione della Psa, mentre sembra che sia più importante l’attività di controllo della popolazione di cinghiali, che dal punto di vista dell’eradicazione della Psa non è così rilevante. Il virus della Peste persiste con una densità di cinghiali di 1/km2, ai limiti dell’area infetta del Piemonte-Liguria abbiamo una stima di 5-7 cinghiali per km2. In nessuna area infetta d’Europa si è riusciti a ridurre dell’80-85% la densità pre-riproduttiva del cinghiale in tempi brevi (1-2 anni), come invece si pretende di fare in Italia. Personalmente, ritengo che tale riduzione sia tecnicamente irrealizzabile, per questo penso che una strategia di eradicazione basata sulle recinzioni abbia maggiore probabilità di successo (ovviamente se condotta con i tempi adeguati). Senza recinzioni i cinghiali, quando cacciati pesantemente, fuggono a destra e manca e con loro il virus. Nel resto d’Europa gli abbattimenti ai limiti delle aree infette hanno sempre condotto all’espansione geografica del virus, speriamo non accada anche in Italia. Voglio dire: dove c’è la Peste si eradichi la Peste con le strategie che si sono dimostrate vincenti, dove non c’è la Peste si gestisca il cinghiale come è più opportuno e corretto gestirlo; ma mai confondere eradicazione della Peste con gestione del cinghiale, sono due cose diverse, e basti pensare che l’eradicazione della Psa è un dovere dei Servizi Veterinari, la gestione del cinghiale è una scelta dei Servizi Faunistici».
Qual è il suo personale punto di vista sulla situazione? Come andrà a finire?
«Non sono molto fiducioso. Il Commissario dice che ci vorranno 3-5 anni per eradicare la Peste, ma in un lasso di tempo del genere la malattia fa in tempo a condizionare fortemente l’intero settore suinicolo, basta vedere cosa è successo agli altri paesi della Ue che hanno il virus».
È quindi più pessimista rispetto all’anno scorso?
«Sì. O meglio: l’area infetta invece di ridursi si è quasi triplicata; quindi, non è questione di ottimismo o pessimismo, ma di vedere i risultati delle azioni fatte in ritardo. Inoltre, abbiamo la recrudescenza di Roma e i nuovi focolai della Calabria e della Campania. Vorrei sottolineare ancora come per l’area del Piemonte-Liguria non sia fallita la strategia di eradicazione, ma la sua applicazione. E non è colpa di nessuno, così come lo è di tutti: il sistema è lento, non riesce a funzionare in emergenza, le procedure sono complesse. Trovare le reti, farle installare, pagarle, è stato complicato e la loro installazione non è ancora completata nonostante un anno di ritardo; forse non verranno mai completate. Come dicevo prima, per l’influenza aviare, le cui modalità di gestione sono già conosciute, “rodate”, la situazione è stata affrontata in modo più efficiente: ogni 2-3 anni abbiamo epidemie di influenza, quindi si sa come gestirle anche dal punto di vista delle procedure amministrative. Per la Peste invece è stato l’opposto, anche le simulazioni fatte prima dell’arrivo del virus (in Friuli-Venezia Giulia e in Emilia-Romagna) avevano immediatamente evidenziato che il problema sarebbe stato l’installazione delle recinzioni, come poi si è verificato. Il sistema è complesso, facilmente diventa lento e forse il solo modo per lavorare in tempi accettabili è farlo in deroga, come hanno fatto per ricostruire il ponte di Genova; tuttavia, è complicato anche solo avere l’autorizzazione per lavorare in emergenza e quindi di utilizzare le deroghe. Purtroppo, il virus non rispetta i tempi delle nostre procedure».
L’intervista a Vittorio Guberti è pubblicata sulla Rivista di Suinicoltura 7/2023
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