È stata prorogata al 31 dicembre 2022 la fine della fase sperimentale del decreto 6 agosto 2020 del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, ministero dello Sviluppo economico e ministero della Salute, che fornisce disposizioni per l’indicazione obbligatoria in etichetta del luogo di provenienza delle carni suine trasformate. Nel decreto viene fatto particolare riferimento alle carni di ungulati domestici della specie suina macinate e separate meccanicamente, alle preparazioni di carni suine e ai prodotti a base di carne suina. Al finire del 2021 è stato pubblicato il decreto interministeriale firmato dal ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, delle Politiche agricole Stefano Patuanelli e della Salute Roberto Speranza, che aggiorna la data di termine indicata nel primo decreto, inizialmente identificata con il 31 dicembre 2021.
Chiarezza in etichetta sull’origine dell’alimento
Il regolamento comunitario europeo 1169/2011, che apre la strada a livello europeo e precede il decreto 6 agosto 2020 in Italia, indica le informazioni che devono essere riportate in etichetta con il fine ultimo di tutelare il consumatore. Tra queste informazioni obbligatorie troviamo: nome commerciale e denominazione dell’alimento, elenco degli ingredienti con particolare attenzione agli allergeni, durabilità del prodotto, quantità netta dell’alimento, condizioni particolari di conservazione o di impiego, nome o ragione sociale e indirizzo dell’operatore del settore alimentare, istruzioni per l’uso (quando necessarie), dichiarazione nutrizionale (con valore energetico e quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale) e origine dell’alimento.
Tuttavia, l’indicazione dell’origine dell’alimento non è obbligatoria in tutti i casi. Nello specifico, lo era già per alcuni prodotti come carni bovine, pesce, miele, frutta, verdura e olio extravergine di oliva. Con questo regolamento è stata estesa anche a carni fresche e congelate delle specie suina, ovina, caprina e avicola (riferimento regolamento Ue n.1169/2011, Allegato XI). A tal proposito, è specificato che il Paese d’origine o il luogo di provenienza deve essere riportato soltanto quando indicato dall’articolo 26, ossia nel caso in cui l’omissione di questa indicazione possa indurre in errore il consumatore. Inoltre, quando il luogo di provenienza di un alimento non è lo stesso del suo ingrediente primario, deve essere indicata anche l’origine di quest’ultimo, o almeno deve essere specificato che l’origine è diversa da quella dell’alimento stesso.
Le informazioni sul luogo di provenienza devono essere apposte in etichetta nel campo visivo principale e devono risultare facilmente visibili e chiaramente leggibili. Non devono essere in nessun modo nascoste, oscurate, limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafiche o da altri elementi suscettibili di interferire.
Stop all’italian sounding con il reg. 2018/775
È importante sottolineare che il regolamento di esecuzione 2018/775 e il successivo decreto interministeriale del 2020 andranno certamente a vantaggio e a sostegno del Made in Italy. Quando è obbligatorio indicare il paese di origine o il luogo di provenienza dell’alimento? Secondo il regolamento di esecuzione 2018/775, è necessario quando l’origine dell’ingrediente primario dell’alimento è diversa dall’origine dell’alimento principale, ed in caso di presenza di simboli, bandiere, diciture o illustrazioni che rimandano a un luogo d’origine differente da quello reale. Con ingrediente primario si intende quantitativamente quell’ingrediente che supera il 50% rispetto al totale, oppure qualitativamente “quell’ingrediente che è abitualmente associato dal consumatore alla denominazione di tale alimento e per cui è nella maggioranza dei casi richiesta un’indicazione quantitativa”. Tuttavia, tale regolamento non si applica a indicazioni geografiche generiche, riferimenti geografici contenuti nei marchi commerciali, ai prodotti Dop, Igp, Stg, e a merci contemplate da accordi internazionali. Ma non solo, il Paese di origine/luogo di provenienza di un ingrediente primario può essere indicato anche solamente con Ue/non Ue oppure Ue ed Extra Ue o ancora, mediante indicazione come: “nome dell’ingrediente primario” non proviene da “il paese di origine o il luogo di provenienza dell’alimento”.
Inoltre, è possibile apportare la zona di pesca Fao per i prodotti ittici, una regione o qualsiasi zona geografica all’interno di diversi Stati membri o Paesi terzi, uno o più Stati membri o Paesi terzi.
Focus sulle carni suine
Sappiamo essere obbligatoria l’indicazione del Paese di origine o luogo di provenienza per le carni fresche, refrigerate o congelate di animali delle specie suina, bovina, ovina, caprina e avicola.
E per quanto riguarda le etichette delle carni suine trasformate?
Secondo il decreto ministeriale 6/8/2020, nei prodotti composti da carni suine trasformate deve essere presente il Paese di nascita, di allevamento e di macellazione dell’animale. Nel caso in cui queste tre indicazioni coincidano, è allora possibile utilizzare il termine “origine” seguito dal nome del Paese. L’indicazione “100% italiano” si può utilizzare solo nel caso in cui la carne provenga da suini nati, allevati, macellati e trasformati in Italia. In caso contrario, è possibile utilizzare i termini “origine Ue”, “origine Extra Ue” oppure “origine Ue ed Extra Ue”. Questo non si applica tuttavia a prodotti legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato Ue o in Turchia e alle indicazioni geografiche protette. Il termine “allevato in Italia” può essere utilizzato solamente quando l’animale:
- viene macellato sopra i 6 mesi e ha trascorso almeno gli ultimi 4 mesi in Italia;
- è entrato in Italia a un peso inferiore ai 30 kg e viene macellato a un peso superiore agli 80 kg;
- viene macellato a un peso inferiore a 80 kg e ha trascorso l’intero periodo di allevamento in Italia (reg. di esecuzione n.1337/2013).
Proposta etichettatura secondo il metodo di allevamento
Oltre a quanto previsto dal panorama legislativo europeo sull’etichettatura delle carni, è ormai evidente quanto stia diventando importante per i consumatori avere sempre maggiori informazioni in etichetta anche sulle modalità di allevamento degli animali. Questo ha portato a una proposta di etichettatura nazionale univoca e volontaria lanciata da Ciwf Italia in collaborazione con Legambiente e in particolare l’Onorevole Rossella Muroni a maggio 2020.
Esistono già dei claim riportanti la dicitura “benessere animale”, ma possono risultare piuttosto fuorvianti, in quanto non danno effettive indicazioni sul metodo di allevamento. Con il fine ultimo di aumentare la consapevolezza del consumatore sul prodotto che sta acquistando, è stata ideata tale etichettatura, in cui è possibile collegare a diversi metodi di allevamento differenti condizioni di benessere animale. Uno degli aspetti fondamentali di questa proposta di legge è che considera i suini in un buono stato di benessere in base alla loro possibilità di esprimere il proprio comportamento naturale.
Più nello specifico, questa etichettatura proposta assegna un codice ai prodotti a seconda del metodo di allevamento e secondo le seguenti modalità:
- 0, Biologico: accesso all’aperto sempre disponibile, gestazione, parto e allattamento liberi, lettiera vegetale, svezzamento oltre i 40 giorni, certificazione;
- 1, All’aperto: accesso all’aperto sempre disponibile, gestazione, parto e allattamento liberi, lettiera vegetale, no castrazione chirurgica, svezzamento oltre i 40 giorni;
- 2, Al coperto: + 30% di spazio, gestazione, parto e allattamento liberi, lettiera vegetale, no castrazione chirurgica, area esterna facoltativa;
- 3, Al coperto: + 30 % spazio, scrofe in gabbia massimo 6 giorni, uso di paglia, castrazione chirurgica con anestesia, no spazio all’aperto;
- 4, Intensivo: requisiti di benessere minimi per legge, no spazio all’aperto e scrofe in gabbia.
Un aspetto molto rilevante e certamente auspicabile di questa possibile nuova legge è che potrebbero derivarne benefici non solo per il consumatore, ma anche per quegli allevatori che si impegnano nel mantenere standard di benessere superiori ai minimi di legge. Essi, infatti, potrebbero così vedere giustamente riconosciuto un valore aggiuntivo ai propri prodotti, anche in termini economici.