Dopo aver ospitato tutte le razze autoctone riconosciute e alcune in via di riconoscimento, a due anni di distanza dall’ultimo servizio torniamo alle origini, ovvero alla razza italica per antonomasia, almeno nell’immaginario collettivo extra-nazionale. Parliamo, insomma, di Cinta Senese, andando a trovare una delle famiglie “eroiche” nell’avventura che ha portato al suo recupero, ormai trent’anni fa. Siamo a Sovicille (Si), laddove ci sono un monumento e una via dedicate alla Cinta, ma soprattutto dove ha la sua tenuta la famiglia Bezzini, che da quattro generazioni custodisce questa magnifica razza.
Una storia di famiglia
«Alleviamo Cinta Senese da quattro generazioni. Fu il mio bisnonno Angelo a trasferirsi qui a Simignano. Allora eravamo mezzadri, ma avevamo già alcuni maiali. Negli anni Settanta, quando il proprietario del tempo decise di vendere l’azienda, mio nonno Giuseppe, con un notevole sforzo economico, l’acquistò. Nel tempo cedette le proprietà più esterne, tenendo però sempre il corpo centrale con i terreni, che costituisce la nostra azienda e ci permette di fare allevamento all’aperto». Chi parla è Cristina Bezzini, quarta generazione dell’azienda Simignano, nonché titolare della medesima, che oggi conta 420 ettari di seminativi e boschi. E dove si dice boschi, in Toscana, si dice Cinta. «Abbiamo querceti, lecceti e castagneti, dove gli animali sono liberi di pascolare.
Vista la grande estensione in rapporto al numero relativamente ridotto di animali, possiamo far ruotare i pascoli in modo che il sottobosco abbia tempo di riformarsi. La nostra è quindi una forma di allevamento totalmente sostenibile e senza nessun impatto sull’ambiente».
Stato brado puro (o quasi)
Fino a pochissimi anni fa, i Bezzini applicavano lo stato brado praticamente puro, liberando gli animali nei boschi e recuperandoli alla sera. Quasi una forma di pastorizia, insomma. «Con la diffusione della Psa, naturalmente, dobbiamo avere qualche precauzione in più.
Abbiamo così recintato i terreni, ma nella sostanza cambia poco: lasciamo ancora i suini sull’intera proprietà, permettendo loro di muoversi liberamente da un bosco all’altro. Li accompagniamo in una zona diversa ogni mattina e al pomeriggio li lasciamo liberi di pascolare nell’erba. Tornano a casa alla sera, per dormire in stalla».
Con un’organizzazione di questo tipo, l’alimentazione diventa quasi totalmente naturale. «Diamo una piccola integrazione con legumi e cereali coltivati da noi, generalmente, orzo, mais e favino, ma è una cosa minima. Il grosso della dieta è costituito da ghiande, erba, castagne e altri frutti di cui è ricco il sottobosco».
Proprietà uniche
Quanto pesa questo tipo di alimentazione sulle caratteristiche della carne? Secondo Cristina Bezzini, che gestisce l’azienda con l’aiuto del padre Andrea e del marito Carmelo Bulfamante, moltissimo: «È per l’appunto merito dell’alimentazione se la carne della Cinta è così gustosa e diversa dalle altre. Il grasso, in particolare, è morbido ed è sufficiente il calore della bocca per scioglierlo: questo rende il prosciutto di Cinta particolarmente gustoso».
Caratteristiche che, in teoria, dovrebbero giustificare un prezzo ben superiore a quello dei suini da allevamento intensivo. Ma, come vedremo in seguito, le sue quotazioni restano, al momento, insufficienti a ripagare gli allevatori delle maggiori spese e delle minori performance produttive.
Tempo e denaro
Allevare la Cinta richiede infatti tempo: gli animali possono essere macellati soltanto a un anno di vita, ma non è detto che nei 12 mesi raggiungano i 140 chili che sono un po’ il peso minimo per la trasformazione. I tempi di accrescimento, vista anche la dieta e il tanto movimento fatto, sono ovviamente maggiori rispetto alle razze moderne e la prolificità è nettamente inferiore. «In azienda abbiamo una media di otto nati per parto, ma non sono rari i parti da sei lattonzoli.
Ne abbiamo comunque anche da 10 o 11, talvolta». Conta, ci spiega Cristina Bezzini, anche l’età delle fattrici. «Le scrofe più anziane tendono a fare meno suinetti e ad avere latte meno nutriente. Capita quindi che su sei nati, un paio risultino sottopeso allo svezzamento. Per questo motivo abbiamo recentemente rinnovato le riproduttrici, cercando performance migliori».
A pesare sui conti dell’allevamento sono, oltre all’alimentazione e alla necessità di recintare i terreni per isolare i suini dai selvatici, i già citati tempi di accrescimento, che appaiono peculiari anche nelle prime settimane di vita. «I parti avvengono in stalla, per evitare che volpi e animali selvatici predino i suinetti. Successivamente, le scrofe tornano al pascolo, mentre i piccoli restano al riparo fino ai 60 giorni, quando, in modo molto naturale, avviene lo svezzamento».
E naturale, del resto, è anche la fecondazione: il verro, di genealogia certificata, vive regolarmente assieme alle scrofe e le feconda secondo natura. «Dopo lo svezzamento, formiamo i gruppi mettendo assieme le varie nidiate. Resteranno invariati per tutta la vita dei suini, ruotando tra i vari pascoli».
Vendita diretta
L’allevamento Bezzini è di taglia media per una realtà che tratta razze autoctone: produce infatti circa 130 grassi l’anno, la maggior parte dei quali è trasformata e venduta al dettaglio. «Abbiamo un accordo con un salumificio che ha sposato la nostra linea di pensiero, ovvero nessun conservante e trasformazione il più possibile tradizionale.
I salumi prodotti con i nostri maiali stagionano poi in una cantina del XII secolo fino al momento della vendita». Inutile dire che il fascino di prosciutti, salami e rigatino (pancetta aperta, ndr) prodotti con animali allevati in castagneto e stagionati in locali con mille anni di storia è impareggiabile.
Serve promozione
Eppure, ci dice Cristina Bezzini, tutto questo non è semplice da far conoscere. «C’è poca informazione sulla realtà della Cinta Senese. I consumatori faticano a capire che dietro un prezzo forzatamente più alto rispetto a quello dei suini moderni ci sono ragioni ben precise: accrescimenti più lenti, un’alimentazione del tutto naturale, minor prolificità, maggiori spese di mantenimento, per esempio per affittare i terreni di pascolo, richiesti dal disciplinare del Consorzio».
Già, il Consorzio. La Cinta Senese è l’unica ad averne uno attivo e ben funzionante, sebbene gli allevatori delle altre varietà stiano provando a organizzare qualcosa di simile. Del Consorzio, o meglio del suo Direttivo, fa parte, da meno di un anno, la stessa Cristina Bezzini. «Stiamo affrontando diversi temi, dall’aumento dei costi ai problemi legati alla Psa e alla presenza dei cinghiali. L’azione principale, tuttavia, è quella per la promozione della Cinta. Dobbiamo far sapere a chi compra i nostri prodotti quanta fatica, passione e, non ultima, sostenibilità ambientale si nasconde dietro di essi. Fortunatamente, i giovani danno importanza a concetti come la tutela del territorio e la qualità, che sono da sempre le nostre bandiere».
I prezzi che gli allevatori riescono a spuntare attualmente, continua Cristina, non sono sufficientemente remunerativi. «Negli ultimi anni i costi sono fortemente aumentati. Penso alle recinzioni contro la Psa, per esempio, che tra l’altro non garantiscono una protezione totale. E se un allevatore deve spendere molti soldi con il rischio di vedersi comunque chiudere l’attività in caso di infezione, ovviamente ci pensa bene».
Accade così che il numero di aziende che fanno suinicoltura con la Cinta sia inferiore a quanto sarebbe necessario, soprattutto per esportare questi splendidi prodotti all’estero. Non è un mistero, infatti, che per uscire dai confini italiani servano numeri elevati e soprattutto continuità di conferimento. Resta però da capire perché un’attività fatta all’aria aperta, con ritmi assolutamente naturali e che valorizza terreni marginali sia poco praticata dagli agricoltori.
«Le ragioni sono molteplici. Non ultima, appunto, la scarsa remuneratività. Che credo sia anche legata ad alcune scelte fatte in passato, quando per aumentare il numero di animali si scelse di aprire ad aziende che non erano improntate sui criteri di qualità assoluta dei produttori storici del Consorzio».
Alla luce di tutto questo, la neoconsigliera propone di scommettere su qualità e soprattutto promozione. «Penso che per valorizzare davvero la Cinta Senese occorra creare, nel pubblico, la consapevolezza della diversità di questa razza rispetto a quelle moderne. Occorre che il consumatore capisca quanto il suo allevamento, oltre a dotarla di caratteristiche organolettiche uniche, sia amico dell’ambiente. In altre parole, vale la pena di spendere una cifra superiore per i prodotti della Cinta».