Con questo numero completiamo un primo virtuale tour delle razze autoctone italiane. Trattiamo infatti un allevamento di Casertana, l’unica di cui ancora non ci eravamo occupati. Si tratta di una varietà tradizionale dell’Italia centro-meridionale, divisa in Pelatella, Napoletana e Teanese. Il nostro testimonial è un’interessante azienda di Faicchio (Bn), che è in primo luogo un salumificio ma che da ormai cinque anni alleva i suini casertani, principalmente per chiudere il ciclo. «Volevamo degli animali nati e cresciuti come diciamo noi, per fare una produzione di altissima qualità e arrivare al ciclo completo: dall’allevamento alla trasformazione. Per chiudere definitivamente il cerchio, la prossima primavera apriremo infine un agriturismo. Continuiamo comunque a ritirare anche suini dagli altri allevatori del territorio». Chi parla è Annamaria Audi, titolare della Tomaso Salumi, una realtà nota in tutta la Campania.
«Credo che ormai tutta l’alta ristorazione e la gastronomia regionale siano nostri clienti, grazie al duro lavoro che abbiamo fatto per produrre salumi tratti dalla tradizione locale ma con un gusto unico», ci spiega con un comprensibile orgoglio.
Il salumificio
La storia del salumificio Tomaso risale al lontano 1962, quando Eugenio Tomaso apre l’attività di trasformazione di suini. Oggi è il nipote, Eugenio anch’esso, di nome, a portarla avanti, assieme alla moglie Annamaria e alla madre Aurelia. «In passato facevamo trasformazione del classico suino bianco, attività che continua tutt’ora. Tuttavia nel 2000 iniziammo a lavorare le carni di suino nero casertano, che ai tempi era praticamente estinto. Con il tempo e la pazienza il settore è cresciuto, tanto che oggi è il nostro principale ambito commerciale. Come ho detto – prosegue Annamaria – trasformiamo anche le carni, con cui facciamo salami, capicollo, prosciutti e il culatello Matese, una prelibatezza del peso di almeno 4 kg, ottenuta da suini di 200 kg e oltre. Tuttavia siamo soprattutto conosciuti per i prodotti derivati dal nero Casertano. In Campania, quando si parla di salumi di Casertana, si pensa a Tomaso».
Il salumificio, che conta una decina di addetti, ritira animali dal territorio oltre a utilizzare quelli del proprio allevamento, come abbiamo visto. «Li portiamo al macello e poi con nostri furgoni li trasferiamo al laboratorio. Seguiamo tutto il ciclo. A partire dall’alimentazione, per la quale chiediamo che si usino soprattutto cereali, fino alla trasformazione e vendita, che come ho detto coinvolge i migliori ristoranti e gastronomie campane».
Allevamento all’aperto
Da ormai cinque anni la famiglia Tomaso ha affiancato un piccolo allevamento all’attività di trasformazione. «Iniziammo con quattro scrofe, un verro e una quindicina di suinetti. Oggi abbiamo dieci fattrici e circa duecento capi in totale, liberi di vagare su un terreno di 6 ettari, chiuso da reti metalliche per evitare la contaminazione con i cinghiali, che in zona sono abbastanza numerosi».
La forma di allevamento è quella che ormai abbiamo imparato a conoscere: i suini crescono all’esterno e sono nutriti “manualmente”. In questo caso, tramite un furgone che percorre il perimetro dei recinti e distribuisce il cibo due volte al giorno. L’unico momento di cattività è in corrispondenza del parto: «Quattro o cinque giorni prima dello sgravamento le scrofe sono messe in gabbia, dove restano finché i piccoli hanno una ventina di giorni. Da allora possono uscire e tra il quarantesimo e il cinquantesimo giorno si completa lo svezzamento, che rende i maialetti indipendenti e le scrofe pronte per una nuova gravidanza».
L’alimentazione
Anche all’alimentazione abbiamo già fatto cenno, ma conviene tornarci sopra. «Impieghiamo quasi esclusivamente cereali della zona. Al momento i principali sono quattro: avena, grano, orzo e mais, ma stiamo per realizzare un nuovo mulino che ci permetterà di miscelare fino a sette ingredienti. Alle farine aggiungiamo siero di latte di un caseificio della zona e malto di un birrificio locale. Cerchiamo insomma di riprodurre, per quanto possibile, l’alimentazione della fattoria di un tempo, dove i suini ricevevano cereali e avanzi».
Tutti i suini sono iscritti al Registro anagrafico
Un aspetto su cui il salumificio non transige, come ci spiega la sua titolare, è la certificazione Anas. «Chiediamo a tutti gli allevatori di allegare a ogni animale la documentazione e la relativa marca auricolare. In caso contrario non ritiriamo i suini. Purtroppo in zona ci sono alcuni che vendono suini neri danesi spacciandoli per nero Casertano. Sebbene allevati in provincia di Caserta, questi animali sono una cosa completamente diversa dai nostri Pelatielli. Il problema vero è che mancano organi di controllo per verificare le certificazioni e il rispetto della razza». Un problema cui si cercò di ovviare, anni fa, con la creazione di un consorzio.
Il consorzio
«Tutto iniziò quando la razza Casertana ottenne una certa fama grazie a un articolo del Gambero Rosso, peraltro dedicato a uno dei nostri prodotti. A seguito di quell’evento coinvolgemmo altri allevatori in un organismo che, nelle intenzioni, doveva servire sia per gli scambi tra parti della filiera sia per fare promozione e protezione del marchio. Purtroppo non arrivammo a realizzare un vero consorzio, ma un’associazione, che ho presieduto per undici anni e che continua a vivere tutt’ora, con un altro presidente. Ne fanno parte circa 30 aziende, molte più delle sei con cui iniziammo nel 2011».
Secondo la presidente dimissionaria, l’associazione-consorzio doveva facilitare gli scambi tra allevatori e trasformatori, per permettere a tutta la filiera di crescere in modo sinergico.
«Quella dello sviluppo uniforme è una questione ancora aperta. La maggior parte degli allevamenti sono di piccola o piccolissima dimensione, con due o tre scrofe e una decina di grassi l’anno. In queste condizioni non guadagnano nulla. Nostro obiettivo era portare queste realtà a una dimensione di profitto, ovvero una decina di scrofe circa. Parallelamente, tuttavia, doveva crescere anche la trasformazione, perché se l’allevatore diventa troppo grande non trova più chi sia in grado di ritirare la sua produzione. Il settore deve svilupparsi in modo armonico, quindi».
Per questo motivo, ma soprattutto per sondare la possibilità di raggiungere i mercati esteri, Annamaria Audi ha aderito all’Associazione dei Suini neri autoctoni italiani, recentemente costituta e di cui fanno già parte anche rappresentanti della Cinta Senese, del Nero Siciliano e dell’Apulo-Calabrese. «Grazie all’unione tra tutte le razze autoctone speriamo di raggiungere i numeri necessari per trattare con importatori stranieri, che in primo luogo richiedono una certa quantità di prodotto. Abbiamo le caratteristiche qualitative per conquistare qualsiasi piazza; quel che ci manca è una dimensione corretta. Che speriamo di ottenere, se non è possibile con la crescita delle singole aziende, con l’unione di più imprese».
Se sei abbonato leggi l'articolo completo su Rivista di Suinicoltura n. 9!