L’utilizzo del pascolo nell’allevamento del suino biologico rappresenta da anni un ambito di interesse zootecnico, che purtroppo non viene sufficientemente applicato ed esplorato a causa di una serie di fattori, che rendono complessa la realizzazione in campo.
Sta di fatto che questa tecnica di allevamento, che rientra a pieno titolo nella normativa che disciplina la zootecnia biologica, costituisce un presupposto molto importante per garantire ai suini, non solo, benessere adeguato e quindi salute e fertilità, ma anche una discreta integrazione alla dieta.
Ovviamente l’adozione di questo sistema di allevamento si dovrà inserire in un progetto più ampio, che preveda anche il recupero di razze autoctone, consentendo al tempo stesso un contenimento quanto mai interessante dell’impiego di mano d’opera.
«L’impiego di un pascolo correttamente gestito nell’alimentazione dei suini – spiega Davide Bochicchio, collaboratore presso il Crea-za di San Cesario su Panaro (Modena) e esperto di fama internazionale sul tema del pascolo in suinicoltura - è in grado di sostituire parzialmente l’apporto di concentrati, in particolar modo la quota proteica, rendendo la razione più sostenibile ed economicamente più conveniente».
A riguardo, abbiamo posto alcune domande all’esperto.
Quali sono i maggiori punti di forza di questa tecnica e le più significative problematiche?
«Nell’allevamento biologico del suino – ha risposto Bochicchio - il pascolo si inserisce felicemente per due motivi molto semplici: favorisce, da un lato, il miglioramento del benessere degli animali (in tutte le fasi e le età, anche se in animali molto giovani le fibre non vengono ben valorizzate, le vitamine, i minerali e il contatto con un suolo sano sono fondamentali), mentre dall’altro permette all’allevatore di ridurre i costi. La scelta della razza autoctona, o di incroci, consentirà un utilizzo adeguato del pascolo senza cali eccessivi di prestazioni. Tuttavia – ha aggiunto Bochicchio -, tra le criticità maggiori che riguardano questa tecnica va senz’altro menzionata quella legata al clima mediterraneo, caratterizzato da periodi di siccità e caldo prolungati».
Quali sono le strategie da mettere in campo per fronteggiare questo problema così diffuso nei nostri areali?
«Si tratta di un limite, che può essere in parte superato con una corretta gestione agronomica e una dettagliata conoscenza delle caratteristiche pedologiche e territoriali, delle differenti essenze erbacee e delle loro performance nei differenti ambienti. Molto interessante in questa ottica - ha rispiegato Bochicchio -, lo studio di modelli di pascolamento “on farm”, che rappresenta un valido mezzo per fornire utili indicazioni per la promozione della suinicoltura biologica. Un lavoro di questo tipo consente di attribuire validità scientifica a molte pratiche tradizionali e sostenibili. Infine una considerazione sull’opportunità di integrare l’allevamento nella rotazione agraria: si tratta di un presupposto fondamentale per poter ottenere risultati positivi all’utilizzo di questa tecnica».
Quali sono i risultati delle sperimentazioni che avete condotto?
«Una prova che abbiamo condotto in passato, durante un progetto finanziato dal ministero delle Politiche agricole, presso un’azienda in provincia di Grosseto, dove un gruppo di quarantacinque suini di razza Cinta Senese ha completato il ciclo produttivo di accrescimento e ingrasso all’interno di un sistema di turnazione di pascoli, ha contribuito a mettere a punto un iniziale modello di allevamento biologico mediterraneo basato sull’utilizzo di diverse tipologie di pascolo. Al fine di evidenziare le performance degli animali sono state rilevate le prestazioni produttive e è stata analizzata la qualità dei depositi lipidici prodotti. Un aspetto che la prova ha messo in luce – ha aggiunto l’esperto - è quello legato alla turnazione dei pascoli, che deve essere progettata per fornire alimenti in modo continuo ai suini: in particolare può essere opportuno l’utilizzo della spigolatura, che nella sperimentazione è stata rappresentata dal favino nel mese di agosto: questa soluzione ha consentito un “pascolamento” anche in assenza di essenze erbacee fresche».
Qual è stato il risultato dell’analisi della qualità dei depositi lipidici?
«Abbiamo rilevato che il diverso contenuto in acidi grassi, in particolare in acidi grassi essenziali, dei vari pascoli e la diversa disponibilità di foraggi e mangime hanno determinato differenze statisticamente significative nella composizione acidica del grasso dorsale dei suini macellati. Nel primo periodo, caratterizzato da pascoli dedicati ricchi di acido linolenico e da consistente
restrizione alimentare, gli animali hanno presentato la più elevata quantità di acido linolenico (determinato principalmente dal pascolo) e una quantità intermedia di acido linoleico (determinato principalmente dal mangime). Nel secondo periodo invece, quando sono state disponibili per gli animali spigolature (granelle) meno ricche di acido linolenico, mentre è continuato un regime di consistente restrizione alimentare, gli animali hanno evidenziato la più bassa quantità di acido linolenico e di acido linoleico. Infine nel terzo periodo, caratterizzato da un pascolo verde più ricco di acido linolenico e da una restrizione alimentare meno consistente, gli animali hanno presentato una quantità intermedia di acido linolenico e la più alta di acido linoleico. Dunque – ha concluso Bochicchio - si conferma che la composizione acidica del grasso dorsale rispecchia la disponibilità di acidi grassi presenti nella dieta; in particolare una dieta “verde” determina un aumento dell’acido linolenico; mentre una dieta più ricca di concentrati incrementa la deposizione di acido linoleico. Di conseguenza l’acido oleico, punto terminale della sintesi lipidica endogena del suino, mostra un andamento speculare rispetto all’acido linoleico di esclusiva derivazione alimentare. Possiamo quindi senz’altro dire che il pascolo “verde” consente di arricchire il grasso di deposito in acido linolenico, che rappresenta un acido grasso pregiato nell’ambito della nutrizione umana (l’acido alfa-linolenico è un acido grasso della serie omega3). Il progetto “Zoobio2systems, foraggi, mangimi, breeding e biodiversità in sistemi zootecnici biologici”, promosso dal Mipaaf, di cui il Crea-za di San Cesario sul Panaro è coordinatore, si propone come obiettivo quello di “individuare modalità di aumento del grado di auto approvvigionamento di materie prime proteiche biologiche per l’alimentazione dei monogastrici, sia a livello di industria mangimistica sia a livello di singoli allevamenti».
Come si è sviluppato il progetto?
«Si tratta di un progetto complesso, che ha differenti obiettivi, in quanto affronta problematiche non solo zootecniche e agronomiche, ma anche sociali ha spiegato Bochicchio -. In questo progetto ci si propone di intervenire a diversi livelli: dal miglioramento genetico di alcune colture proteiche alternative alla soia (favino e pisello proteico in primis) all’utilizzo delle stesse in chiave di auto-approvvigionamento negli allevamenti avicoli e nei mangimifici fino al pascolamento suino. In una parte del progetto abbiamo rivolto l’attenzione verso le realtà agricole biologiche più piccole, quelle che non riescono o faticano a stare sul mercato, per le quali stiamo portando avanti la sperimentazione di un modello di rete di comunità rurale con la costruzione di un sistema di produzione e vendita che idealmente potrebbe svilupparsi in un “biodistretto”. In questa sezione più sociale del progetto, il nostro apporto è di facilitare, da una parte, la creazione di piccoli allevamenti di suini o di avicoli, dall’altro di sviluppare opportunità di finanziamento (tramite Psr o Gal) e di vendita. Qui abbiamo introdotto l’utilizzo della “permacultura”, una disciplina nata negli anni ‘70 dal lavoro di Bill Mollison e David Holmgren, che non è altro che un raffinato flusso progettuale per creare sistemi integrati sostenibili. La permacultura nasce con lo scopo di proporre un’alternativa sostenibile all’agricoltura industriale, ma il cui fine non è produrre le stesse quantità dell’agricoltura industriale, ma produrre quantità e qualità ricreando un sistema, o meglio un agro-ecosistema, quanto più strutturato e biodiverso possibile».
In questo contesto si inserisce l’allevamento biologico del suino al pascolo?
«In Italia la carne suina è quella più consumata in assoluto, ma la produzione di carne suina bio è il fanalino di coda del comparto, anche se in questi ultimi tempi la richiesta è in aumento. Sarebbe auspicabile vedere la produzione nazionale crescere, magari sperimentando diverse soluzioni di allevamento. Organizzare un corretto pascolamento non è semplice, lasciare per lungo tempo i suini in un recinto, per quanto vasto, equivale a distruggere il cotico erboso, gli arbusti e spesso anche gli alberi. Nel progetto Zoobio2Systems stiamo sperimentando, in una grande azienda biologica Toscana, un modello di pascolamento che oltre a fornire ai suini, per gran parte dell’anno, foraggi freschi, in modo da ridurre considerevolmente l’utilizzo di mangime concentrato, aumenti la fertilità del suolo. Lavorare con il pascolo (stiamo portando avanti esperienze anche con avicoli e bovini) significa cambiare decisamente punto di vista, il suolo diventa il protagonista dell’agroecosistema e gli animali il perfetto completamento della produzione vegetale, tutto si può integrare perfettamente, come del resto è sempre stato, basta progettare bene».