L’Efsa ha predisposto una video-animazione della durata di 3 minuti per illustrare i meccanismi di contagio della Psa, i sintomi negli animali e le buone pratiche della prevenzione (vedi sopra).
«Fare allarmismo non è il caso, ma è certo che la patologia della Peste suina africana (Psa) è carica di rischi per la nostra suinicoltura e, perciò, a essa va dedicata la massima attenzione». Sono le parole di Manlio Palei, direttore del Servizio Sanità pubblica veterinaria della Regione Friuli Venezia Giulia, pronunciate nell’ambito di un convegno dedicato proprio alla Psa, organizzato a Udine dall’Associazione allevatori del Friuli Venezia Giulia.
«Si tenga conto – ha proseguito Palei - che pur con tutte le precauzioni del caso e le tante misure preventive messe in campo dalle autorità sanitarie e veterinarie dei vari Stati, il fronte del contagio della Psa avanza, fisiologicamente, di circa 50 chilometri all’anno. Notizia di questi giorni è che sei nuovi focolai sono stati registrati in Romania (con 66 casi segnalati nel solo mese di gennaio 2019) e alcuni distretti della Repubblica Ceca sono coinvolti in operazioni di profilassi e misure precauzionali legate al protocollo di difesa ed eradicazione».
Un virus che viaggia
La Psa è una malattia virale (causata da un Arbovirus) dei suidi che può colpire sia il suino domestico, sia il cinghiale. Quando il suino entra in contatto con il virus, attraverso la via oro-faringea, colonizza quelle mucose, quindi passa ai linfonodi regionali, da qui a tutti gli organi dell'animale, con preferenza per gli endoteli vasali. Il virus si trasmette in diverse maniere, con dei suidi portatori (questo è il motivo per il quale la massima attenzione deve essere rivolta alle regole di biosicurezza), con i cinghiali (soprattutto negli Stati europei), oppure, con l'uomo (evento assai probabile). Le persone che provengono o transitano da aree infette possono rappresentare veicoli inconsapevoli di trasmissione del virus agli animali, attraverso pratiche igieniche o di smaltimento dei rifiuti alimentari non corrette. Con i cinghiali, o per contatto diretto, o grazie ad artropodi vettori, nelle zecche può rimanere vitale anche per due anni; nel terreno, nelle carni e nelle ossa, per oltre 6 mesi.
«Sappiamo che le zecche, rappresentano la via più frequente di passaggio dal selvatico, ove questo sia infetto, all'allevamento rurale – ha spiegato il medico veterinario, Doriano Piemonti – perché, questi artropodi possono arrivare nei piccoli ricoveri di campagna, conservando al proprio interno, per lungo tempo il virus, in attiva replicazione e, andando a prendere il loro pasto di sangue, trasmetterlo ai suini».
Tra le zecche dure e quelle molli (di ambedue, esistono centinaia di specie), le più pericolose sono quelle molli e, in particolare, la Ornithodoros Porcinus Porcinus. Alla vista si presenta senza scudo chitinoso sulla schiena, svolge da 2 a 7 fasi di sviluppo, compie brevi pasti (per lo più di notte), infesta i ricoveri degli animali, depone 400-500 uova per volta, e può sopravvivere anche per 14 anni senza alimentarsi.
Pure la capacità di sopravvivenza del virus pestoso è davvero notevole: resiste a -70 °C, resiste alla putrefazione, resiste alla stagionatura (300 giorni in un prosciutto) e, per eliminarlo, i normali disinfettanti necessitano di almeno 30 minuti d'azione diretta.
L’uomo non è sensibile alla malattia, ma l’eventuale infezione (per la quale non esistono né vaccini, né cure) comporta conseguenze economiche devastanti per il settore suinicolo, sia direttamente a causa della mortalità degli animali, sia indirettamente a motivo delle restrizioni al commercio di suini e prodotti derivati. In seguito alla registrazione di eventuali focolai, le misure restrittive possono coinvolgere aree con un’ampiezza minima di 200 kmq fino a una massima di 3.600 kmq, per un periodo di almeno 40 giorni. All’interno delle aree individuate dalle autorità sanitarie, si può pure prevedere l’abbattimento totale della popolazione suina presente. Un ordine di grandezza della posta in gioco la si capisce scorrendo i dati forniti da Assica che, per il 2017, segnala come la lavorazione delle carni suine, in Italia, superi i 1,175 milioni di tonnellate di prodotto per oltre 8 miliardi di euro di fatturato, dei quali 1,5 miliardi destinati all'export.
I sintomi
I sintomi classici di questa malattia sono: febbre, perdita di appetito, vomito, debolezza, aborti spontanei, emorragie interne con emorragie evidenti su orecchie e fianchi. Può verificarsi anche la morte improvvisa. Infatti, i ceppi più aggressivi del virus sono generalmente letali. Il decesso avviene entro 10 giorni dall’insorgenza dei primi sintomi.
La prevenzione
Per prevenire l’introduzione del virus nelle aree ancora incontaminate è importante: non importare dalle zone infette prodotti a base di carne suina o di cinghiale (a esempio: carne fresca e carne surgelata, salsicce, prosciutti, lardo, a meno che i prodotti non siano etichettati con bollo sanitario europeo); non somministrare ai suini domestici rifiuti alimentari di qualunque tipologia; non abbandonare rifiuti alimentari in aree accessibili ai cinghiali.
I cacciatori devono: pulire e disinfettare le attrezzature, i vestiti, i veicoli e i trofei prima di lasciare l’area di caccia; eviscerare i cinghiali abbattuti solo nelle strutture designate; evitare i contatti con maiali domestici dopo aver cacciato. Gli allevatori di suini devono: rispettare le norme di biosicurezza, in particolare sostituire l’abbigliamento e le calzature quando entrano o lasciano l’allevamento; notificare tempestivamente ai Servizi veterinari eventuali sintomi riferibili alla Psa ed episodi di mortalità animale anomala.
La sorveglianza passiva
Per poter agire tempestivamente in caso di infezione, è essenziale l’attivazione di un sistema di sorveglianza passiva. In questo contesto, le guardie forestali e i cacciatori, vista la loro costante presenza e diffusione sul territorio, rappresentano un importante presidio anche se non è sempre semplice osservare la sintomatologia o le lesioni esterne in vivo. In caso di Psa, comunque, si osservano mortalità anomale. Spesso le carcasse sono numerose, e vengono rinvenute in un breve lasso di tempo e in un’area ristretta ed è essenziale che, qualunque caso sospetto, venga prontamente segnalato alle Autorità sanitarie, le quali procedono immediatamente a effettuare gli accertamenti necessari per confermare o meno la presenza della malattia.
La Direttiva 2002/60/CE, recepita con Decreto Legislativo 20 febbraio 2004, n. 54, stabilisce che quando la malattia è confermata nei suini selvatici, deve essere presentato un piano di eradicazione alla Commissione europea entro 90 giorni dalla conferma. In proposito, il documento fornisce orientamenti agli Stati membri per controllare la Psa. Gli obiettivi principali del controllo rapido dell'infezione nei suini selvatici, sostanzialmente, sono quelli di ridurre il rischio di trasmissione ai suini domestici e di evitare che diventi endemica nel maiale selvatico.
In caso di conferma di Psa nei suini selvatici deve essere istituito un Gruppo di esperti comprendente: veterinari, cacciatori, biologi ed epidemiologi, specializzati nella fauna selvatica.
Il Gruppo assiste l’Autorità Competente nella determinazione della zona infetta tenendo conto: della distribuzione dei casi; dei risultati delle indagini epidemiologiche; della popolazione di suini selvatici (distribuzione, numerosità); della struttura del paesaggio (esistenza di importanti ostacoli naturali o artificiali, come a esempio aree boschive, corridoi verdi, autostrade, fiumi, laghi, ecc.). Collabora, inoltre, nella definizione di adeguate misure da applicare che possono comprendere la sospensione della caccia e il divieto di nutrire suini selvatici; nella stesura del piano di eradicazione e nell'esecuzione di verifiche intese ad accertare l'efficacia delle misure adottate.