Per la stesura del seguente articolo abbiamo voluto prendere spunto dalla recente VI Jornada Sip (Sistemes d’informació per la producció, Sistemi d’informazione per la produzione) tenutasi a Lleida (Spagna) lo scorso 26 Novembre, durante la quale oltre 450 allevatori e addetti del settore suinicolo di 3 paesi diversi, Spagna, Portogallo ed Italia, hanno focalizzato la loro attenzione in modo particolare sull’economia di allevamento.
Nelle diverse conferenze che si sono succedute, si è cercato di dare un senso economico ai vari aspetti tecnici che contraddistinguono l’allevamento del suino, in quanto l’impresa suinicola, come tale, ha l’obiettivo principale di generare profitti.
Tra i tanti interventi effettuati dagli esperti durante il congresso, abbiamo deciso di concentrarci su quello sostenuto da Pep Font, cofondatore del SIP, durante il quale sono stati presi in considerazione i fattori che influenzano il costo di alimentazione in Spagna, cercando però di ampliare lo sguardo a quanto succede in Italia al fine di offrire spunti di riflessione ai nostri lettori.
Importanza del costo alimentare
Già nel momento in cui si precisa che in Spagna i costi di alimentazione rappresentano circa il 70% del costo di produzione complessivo, si capisce come il parallelo tra il nostro paese e quello iberico sia presto fatto nonostante si parli di una produzione prevalente di suino leggero macellato al peso di 107 kg di media (Tabella 1).
Giustamente, occorre rimarcare che, relativamente all’alimentazione, esiste una differenza tra gli allevamenti che rientrano nel miglior 15% rispetto alla media e quelli che rientrano nel peggior 15%, ovvero 4,7 e 9,4 euro/suino, rispettivamente.
Quindi la prima nota positiva può derivare dalla considerazione che esistono margini sui quali lavorare che ammontano a quasi 10 euro se paragoniamo gli allevamenti più e meno virtuosi.
Ovviamente il costo alimentare è sempre frutto del prodotto tra Indice di conversione globale (Icg) e prezzo del mangime. Per rimanere nell’ambito di quanto illustrato in tabella 1, il costo alimentare per kg di carne del miglior 15% di 0,74 euro, può essere raggiunto attraverso tantissime strade, tra cui quelle mostrate nella tabella 2.
Prezzo medio del mangime un parametro fondamentale
Giunti a questo punto il relatore spagnolo ha analizzato, sulla base della propria banca dati costituita da un patrimonio di oltre 800.000 scrofe, l’incidenza dell’Icg e del prezzo del mangime sul costo alimentare, arrivando ad una conclusione per certi versi inaspettata. Se è vero infatti che entrambi i parametri hanno una forte incidenza sul costo alimentare, forse potrà stupire il fatto che l’aspetto maggiormente correlato a tale costo sia il prezzo medio del mangime e non l’Icg; il primo si caratterizza per una correlazione (R2) pari a 0,522, mentre il secondo registra una correlazione di 0,326.
La fase di ingrasso è la più determinante
In entrambi i casi, comunque, le variazioni che registrano un maggiore impatto sui valori medi di allevamento sono quelle che riguardano l’ingrasso (nel caso spagnolo un miglioramento dell’Indice di conversione, Ic, nella fase di ingrasso di 100 grammi si traduce in un miglioramento dell’Icg pari a 80 grammi e, analogamente, un calo nel prezzo del mangime somministrato durante la fase di ingrasso di 10 euro/ton fa variare il costo totale del mangime di 8,8 euro/ton). Ecco che, volendo trarre una seconda conclusione, si può mettere in evidenza come la fase di ingrasso (per i cicli chiusi) rappresenta quella in grado di incidere maggiormente sui costi alimentari in generale e di conseguenza sulle performance economiche.
Cercando di fare un parallelo con l’Italia, simuliamo una situazione che potrebbe essere considerata standard (Icg = 3,435 e prezzo medio alimento = 275 euro/ton) e analizziamo l’impatto che può avere il miglioramento di 0,1 punti di IC nella fase di ingrasso, svezzamento (= 100 g di mangime in meno) o l’aumento di 1 suinetto svezzato/scrofa/anno. Analogamente valutiamo anche l’impatto che può avere una diminuzione di 10 euro/ton rispettivamente del costo mangime-scrofe, del costo mangime-svezzamento e del costo mangime-ingrasso sul costo medio complessivo del mangime (Tabella 3).
Anche per l’Italia si conferma che le variazioni in grado di incidere maggiormente sui valori medi sono quelle che si determinano durante la fase d’ingrasso ed hanno un peso molto simile ai risultati spagnoli. Infatti, il miglioramento di 0,1 nell’Ic della fase di ingrasso comporta un vantaggio di 82 grammi nell’Icg, mentre 10 euro/ton in meno sul prezzo del mangime d’ingrasso determinano una riduzione nel costo medio del mangime di 8,1 euro/ton.
Quello che si vede nella realtà spagnola (Tabella 4), è che il prezzo del mangime all’ingrasso ha una correlazione diretta con l’Ic di tale fase e con l’Icg (R2 rispettivamente pari a – 0,276 e – 0,219). Il dato mette quindi in evidenza che i produttori che registrano un prezzo del mangime più alto in tale fase, godono tendenzialmente di una migliore conversione alimentare sia durante la fase d’ingrasso, sia a livello globale.
Analogamente il prezzo del mangime in fase di svezzamento ha una correlazione con l’Ic della medesima fase, ma incide poco sull’Icg.
Infine, la produttività delle scrofe registra una significativa correlazione con il prezzo del mangime destinato ai riproduttori (R2 = 0,239), facendo desumere che gli allevamenti che vogliono essere più produttivi devono investire maggiormente sulla quantità e qualità dei mangimi durante la fase di lattazione (corrispondente a un aumento dei costi alimentari). Al contrario, non si dimostra relazione alcuna tra il prezzo del mangime complessivo e l’indice di conversione globale.
Per non sbagliare
Concludendo, in base ai risultati mostrati in tabella 4, va detto che quando si decide di aumentare i costi di alimentazione al fine di migliorare le conversioni alimentari, oppure di ridurli per risparmiare pur sapendo che ciò potrebbe andare a scapito delle conversioni, occorre sempre tenere in considerazione il ritorno economico finale.
Ritornando all’esempio già discusso in tabella 2, qualora in azienda si decida di incrementare il prezzo del mangime globale di 8 euro (da 274 a 282 euro/ton), al fine di mantenere inalterato il costo alimentare/kg sarà necessario conseguire un miglioramento nella conversione alimentare di 0,08 (80 grammi).
In termini economici quindi, ogni euro di incremento nel prezzo del mangime equivale a 10 grammi di conversione.
Leggi l’articolo completo sulla Rivista di Suinicoltura n. 1/2016
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