È finito il periodo d’oro per la suinicoltura italiana? Probabilmente no, abbiamo alle spalle una fase decisamente positiva, ma la filiera non deve sottovalutare alcuni fattori di rischio. A dirlo, nel corso degli Stati generali della suinicoltura italiana, moderati da Giorgio Setti, dell’Edagricole, durante la Fiera internazionale del Bovino da latte di Cremona, è stato Gabriele Canali, docente di Economia agraria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e direttore del Crefis, il Centro ricerche economiche delle filiere suinicole.
«Possiamo affermare che veniamo da un periodo particolarmente fortunato, grazie ai prezzi bassi delle materie prime, un forte traino della domanda cinese, che ha accompagnato gli ultimi 15 mesi, e per il fatto che abbiamo registrato il recupero di equilibrio del mercato del Prosciutto di Parma, dopo anni di difficoltà – ha spiegato il professor Canali -. Possiamo però parlare di condizioni di pura fortuna, dal momento che tutto questo non è stato frutto di azioni strategiche degli operatori della filiera, ma assolutamente figlio di fattori esogeni».
Bene i prezzi dei prosciutti dop e delle carni fresche
In un simile scenario, in particolare, hanno sicuramente contribuito alla competitività della filiera suinicola, reduce da almeno cinque anni di crisi, l’incremento dei prezzi al consumo dei prosciutti dop, che nel periodo fra la 33ª e la 36ª settimana di quest’anno hanno superato i 25,60 euro al chilogrammo. Una cifra sicuramente più alta rispetto ai 24,75 €/kg del 2016 e ai 22,90 €/kg del 2015 (fonte: elaborazione Ismea su dati Nielsen Consumer Panel).
Anche i prezzi al consumo della carne suina fresca quest’anno hanno registrato performance migliori rispetto al 2016 e al 2015. La crescita si è verificata a partire dalla 21ª settimana del 2017. Addirittura tra la 29ª e la 36ª settimana i prezzi sono schizzati da 6,60 a 6,80 euro per chilogrammo. Un salto in avanti che non ha precedenti, analizzando almeno le tendenze degli ultimi anni.
A sostenere i listini – che pure non si sono ancora smarcati nella fase di rilevazione dei prezzi della Commissione unica nazionale da alcune dinamiche traumatiche fra le parti – hanno contribuito anche due fattori, come lo stesso professor Canali ha ricordato.
Macellazioni in calo
«Nel periodo gennaio-giugno 2017 sono calate del 3,5% le macellazioni di suini in Italia, scese a 5.932.800 capi – ha rilevato il direttore del Crefis – con un decremento significativo dei lattonzoli e dei magroni, che hanno rispettivamente perso il 14,5% e l’8,9 per cento. Una flessione del 2,5% su base tendenziale, che è rimbalzata anche sul peso morto complessivo, fermatosi a 762.500 tonnellate».
Il decremento delle macellazioni è stato confermato anche per l’Ue-28, che nei primi sei mesi del 2017 ha perso l’1,9%, con riferimento alle macellazioni a peso morto. Il computo del primo semestre di quest’anno vede pertanto un livello di 11.562.500 tonnellate di carne macellata.
Le maggiori flessioni sono state registrate in Francia (-3,8%), in Germania (-2,2%), in Olanda (-1,7%) e in Belgio (-5,6 per cento). Spagna e Danimarca, invece, hanno aumentato i volumi delle macellazioni, rispettivamente dello 0,6% e del 1,1 per cento, con riferimento alle quantità di carne a peso morto.
Un altro elemento che in questi mesi ha sicuramente contribuito alla vitalità delle mercuriali è il bilancio sostanzialmente positivo anche per i consumi domestici di carne suina fresca, che nei primi nove mesi di quest’anno ha raggiunto quota 127.298 tonnellate, lo 0,5% in più rispetto allo stesso periodo del 2016.
I tre fattori di rischio
Nonostante una congiuntura definita appunto dal professor Canali “particolarmente fortunata”, il direttore del Crefis non ha potuto non mettere in evidenza tre elementi che invitano alla cautela e all’attenzione l’intero comparto.
«Abbiamo visto, anche recentemente negli Stati Uniti, la portata dei rischi dovuti ai cambiamenti climatici e ai loro effetti avversi sui mercati delle materie prime agricole – ha rilevato -. Quanto ai prezzi europei dei suini, nonostante una riduzione dell’offerta e delle macellazioni, registriamo una flessione dei listini, che avrà comunque ripercussioni di mercato. Il terzo elemento da prendere in considerazione è dato dal fatto che il ciclo positivo del Prosciutto di Parma sta andando verso una fase meno soddisfacente, con una contrazione dei consumi e un calo della redditività».
Prosciutto dop, consumi in calo
Fra gennaio e settembre di quest’anno il prosciutto crudo a Denominazione di origine protetta ha visto crollare i consumi del 10,9% rispetto allo stesso periodo del 2016, fermando la bilancia delle vendite a 11.098 tonnellate, quando fra gennaio e settembre dello scorso anno l’asticella dei consumi interni era arrivata 12.460 tonnellate.
La filiera: sì al dialogo
Dal palco di Cremona la risposta della filiera è stata unanime. Per rilanciare il comparto e affrontare il futuro con maggiore serenità e migliorare la competitività rispetto agli altri player internazionali, è necessario puntare sugli elementi sempre più alla base delle richieste del consumatore: la qualità, il benessere animale, il rispetto dell’ambiente.
«Sono queste le discriminanti che più di altre incidono, tra i fattori che spongono all’acquisto – ha rilevato Lorenzo Fontanesi, allevatore, già presidente di Opas e alla guida del macello Italcarni di Carpi -. A questo seguono altri elementi chiave, come ad esempio la distintività, la tipicità e la territorialità della provenienza. È su questi fattori che diventa imprescindibile impostare un vero dialogo di filiera».
Nell’ottica di una migliore programmazione del numero e della tipologie degli animali allevati, il dialogo è fondamentale. Ma anche nella gestione dell’offerta lungo la filiera, con l’obiettivo di assicurare a tutti gli anelli che tengono insieme il comparto un adeguato livello di remunerazione. Senza margini di guadagno la filiera si azzoppa.
Una delle grandi sfide della competitività parte dai costi di gestione. Elio Martinelli, presidente di Assosuini, ha rimarcato le differenze tra il modello produttivo italiano, della filiera dei prosciutti tipici, in particolare, e le produzioni estere. «I costi di produzione non sono minimamente equiparabili – ha osservato -. Come possono gli allevatori italiani confrontarsi sul mercato, quando gli allevatori danesi, canadesi o brasiliani hanno costi di produzione che oscillano fra i 77 e gli 88 centesimi al chilogrammo. Da noi la situazione è ben diversa e impone approcci di filiera coordinati e risposte rapide».
«Ci troviamo a parlare di problemi che ben conosciamo: mancanza di interprofessionalità e mancanza di unione. Siamo reduci da momento favorevole, non facciamoci scappare questa occasione, sfruttiamo la spinta per stabilizzare i nostri mercati», ha commentato Enrico Cerri, presidente di Prosus.
Lo stesso presidente del macello cooperativo cremonese ha messo in guardia la platea. «Non dobbiamo cadere nella voglia di raddoppiare gli allevamenti – ha ammonito Cerri – solo perché abbiamo avuto un anno particolarmente favorevole. Questa è l’occasione di ristrutturare il sistema allevatoriale: benessere animale, uso consapevole dei farmaci. La qualità italiana finalmente ci viene riconosciuta: il consumo sta cambiando, puntiamo sull’alta qualità».
Se il futuro è il confronto aperto e costruttivo, da parte di Assica, l’Associazione degli industriali delle carni suine, aderente a Confindustria, la mano è tesa. «Siamo assolutamente favorevoli all’interprofessione – ha dichiarato Giuseppina Sassi, vicepresidente di Assica -. Dobbiamo lavorare su una filiera sostenibile economicamente, in termini di produttività e dal punto di vista ambientale, richiesta che non viene solo dal mercato, ma anche dal sociale. Alcune forme di interprofessione possono essere quelle contenute nei consorzi, dove esiste una rappresentatività a tutti i livelli».
Gli aspetti da valorizzare sono legati alla sostenibilità. Una sostenibilità che, appunto, «non è solamente ambientale, ma anche economica e sociale». E con il comparto che, da un anno e mezzo a questa parte, ha dato segnali di ripresa confortanti, si impongono due missioni come prioritarie: l’internazionalizzazione, per la quale si impongono investimenti a medio e lungo termine, e l’incremento della componente legata ai servizi, sempre più ricercata anche nei paesi in via di sviluppo.
«La Cina rappresenta il 48% della produzione suinicola mondiale, mentre l’Europa è al 21%– ha rilevato Sassi -. Dobbiamo assolutamente puntare sulle nicchie di altissima qualità e sull’incremento dell’export, per mantenere sia le quote di produzione che la valorizzazione del prezzo».
Sul tema delle esportazioni è intervenuto a gamba tesa contro il ministero della Salute l’assessore all’Agricoltura della Lombardia, Gianni Fava, presente agli Stati generali della suinicoltura. La Lombardia rappresenta, in particolare, quasi il 50% della produzione nazionale di carne suina, in larga parte destinata alla produzione della salumeria dop made in Italy.
«Non abbiamo certo bisogno di una politica che, in questi anni, non ha saputo cogliere le opportunità del mercato cinese – ha attaccato Fava -. Mentre la Spagna quadruplicava la propria produzione e apriva un canale di export stabile verso Pechino, noi eravamo bloccati per la vescicolare in Sardegna e in Campania. Quali conseguenze economiche negative ci sono state per la filiera suinicola italiana, che avrebbe potuto trovare un varco interessante per produzioni legate magari al quinto quarto e ai cosiddetti tagli minori? Dopo anni, grazie alla nostra caparbietà, siamo riusciti a far accreditare per le esportazioni le Regioni del Nord, ma è stata una battaglia infinita, contro la sordità dei ministeri».
«Oggi, con un mercato positivo per i suini – ha riconosciuto Fava – forse non avvertiamo l’esigenza di esportare in Cina, ma se cambiano le prospettive di mercato? Chi dobbiamo ringraziare, i soliti burocrati del ministero che, guarda caso, oggi non si sono fatti vedere come dal ministero dell’Agricoltura o rimangono lontani da questa platea, nel caso del ministero della Salute?».
Un j’accuse sul quale si è innestato anche un ragionamento più ampio, stimolato dal moderatore, sul ruolo della politica. «Nell’ambito dei rapporti con le imprese credo che la politica debba limitarsi a creare poche regole, chiare e trasparenti, in grado di essere facilmente applicabili – ha spiegato Fava -. L’altra funzione della politica è quella di mettere a disposizione i fondi, sulla base delle richieste delle imprese. Non possiamo imporre politiche dirigistiche, perché in un’economia di mercato le scelte spettano alle imprese e agli imprenditori».
Leggi l'articolo completo sulla Rivista di Suinicoltura n. 11 o sul nostro sito web www.suinicoltura.edagricole.it .