Nel settore tutti sanno che la Peste suina africana è arrivata in Italia e sta facendo un decorso inesorabile e pericoloso, ma fuori dal settore la notizia sta prendendo soltanto adesso una dimensione maggiore. Soltanto ora che sono passati quasi tre anni dal ritrovamento del primo cinghiale infetto ad Ovada, in Piemonte. Ne abbiamo parlato con Alberto Cavagnini, vicepresidente di Coldiretti Brescia, a seguito della sua intervista sulle stesse tematiche a “L’economia è di casa” del 17 settembre 2024, il nuovo settimanale economico di Èlive, condotto da Massimiliano Del Barba, caposervizio del Corriere della Sera di Brescia.
Dottor Cavagnini, a che punto siamo con l’avanzamento della Peste suina africana?
Diciamo che sui giornali extra-settoriali se ne parla forse un po’ poco, sembra un’emergenza che potremmo definire “silente” da questo punto di vista, ma la Peste suina africana è arrivata nel 2022 in Regione Piemonte, si è spostata l’anno scorso in Regione Lombardia e passo dopo passo si sta avvicinando a Brescia, che è una delle capitali della suinicoltura italiana (ma anche europea).
Cosa state vedendo voi alle-vatori, da quello che per gli esterni del settore può sembrare (purtroppo) un osservatorio privilegiato?
Diciamo che questo è un problema che sta toccando ancora non pienamente la nostra provincia (Brescia), che sta vivendo solo indirettamente quello che altre aree vivono più da vicino. Tuttavia, tutto il settore suinicolo ormai da più di 1000 giorni (sì, perché dal momento in cui è stato trovato il primo cinghiale affetto da peste suina africana ad Ovada il 7 gennaio del 2022 sono trascorsi 1013 giorni!) è sottoposto ad una sfida enorme. Si è davvero parlato troppo poco di questa problematica e forse, mi conceda, si è fatto anche troppo poco. Infatti, ad oggi, la situazione è ormai molto pericolosa, perché i chilometri quadrati coinvolti da zone di restrizione sono circa 23.000 e coinvolgono nel Nord Italia la Lombardia, l’Emilia-Romagna, la Liguria, il Piemonte e la Toscana. La preoccupazione è quella che possa arrivare ad un’areale, quello appunto di Brescia, Cremona, Mantova e Parma, che rappresenta sostanzialmente il nucleo del patrimonio della suinicoltura italiana.
Il problema sul suino di allevamento rappresenta l’inizio di altri problemi?
Certo, perché stiamo parlando dell’inizio di una filiera importantissima, che è quella della carne ma anche degli insaccati. È importante guardare questa problematica a 360° per cercare di avere un quadro generale di come questa problematica potrà ripercuotersi poi sull’intera filiera. Perché il settore primario, che appunto è il settore della produzione, è anche il settore che inizialmente è colpito, ma le problematiche si riversano in modo crescente anche su tutta quella che è la filiera: quindi l’industria di macellazione, subito dopo l’industria di trasformazione, la stagionatura dei prosciutti e quindi tutta la catena che viene a valle.
Ecco, parlando di consumi, il consumatore può stare tranquillo?
Beh, certamente una precisazione è d’obbligo per i cittadini: si può stare tranquilli dal punto di vista della salubrità dei prodotti, perché la peste suina africana non causa nessuna problematica all’uomo né non vi è possibilità di infezione anche se l’uomo dovesse consumare delle carni infette da Peste suina africana. Ma, a maggiore sicurezza, sottolineo che nel settore italiano abbiamo un servizio sanitario estremamente attento, e quindi l’eventualità di consumare carne infetta non c’è. L’aspetto che interesserà e toccherà i consumatori, e anche noi, saranno le problematiche legate all’accessibilità dei prodotti a causa degli inevitabili rincari dei prezzi causati dalla scarsità di materia prima.
Sembrano passati tanti anni, ma la realtà dei fatti è che già i tempi del Covid ci hanno insegnato molto.
Nel post Covid, l’emergenza che si è vissuta continua ad essere parte della nostra economia, con ripercussioni che incidono a 360°. Ad indebolire ulteriormente la capacità produttiva è l’impennata del costo delle materie prime dovuta alla guerra tra l’Ucraina e la Russia, che inevitabilmente ha avuto forte impatto sul settore primario, considerata proprio la riduzione dei volumi dei cereali a disposizione. L’epidemia della peste suina africana non fa altro che acuire ulteriormente quelle che sono delle problematiche che il settore primario stava già vivendo, e che inevitabilmente si ripercuoteranno ulteriormente nell’arco del tempo sull’intera filiera, e poi a valle sul consumatore finale.
Quindi è un’emergenza “da cinghiale”, corretto?
Coldiretti ormai da 10 anni sta sollevando il tema della esagerata popolazione del cinghiale nel territorio italiano a più livelli, sia Nazionale che Regionale. Purtroppo, come spesso succede, ci si accorge troppo tardi di quella che è la reale portata di una problematica, ed oggi la stiamo vivendo e pagando sulla nostra pelle.
Da poco c’è un nuovo Commissario per la Peste suina africana. Commenti?
Personalmente ritengo che il cambio di passo rispetto al passato sia evidente. Ci tengo a precisare che tutte le critiche del settore allevatoriale dovrebbero essere sempre espresse e poi interpretate come delle critiche di tipo costruttivo, perché con le istituzioni è fondamentale instaurare un rapporto di dialogo. Una problematica come questa può essere risolta soltanto con un tavolo di concertazione, dialogo e discussione. Personalmente ho grande fiducia nei confronti del dottor Filippini, nuovo Commissario straordinario della Peste suina africana, perché è un uomo di esperienza che ha vissuto questa problematica anche nella Regione Sardegna. Solo attraverso una collaborazione tra il Commissario straordinario e il mondo agricolo si riuscirà a gestire la problematica.
Cosa ne pensa della gestione del cinghiale?
I primi passi che il dottor Filippini ha avviato sono, a mio avviso, positivi. Questo sebbene il contenimento della fauna selvatica ad oggi rimanga tra le situazioni più lacunose dell’intera faccenda. Fortunatamente i nuovi piani prevedono azioni intese a colmare queste lacune, sfruttando le arterie autostradali come punto di contenimento ed arginamento della stessa fauna selvatica e punto di inizio per il depopolamento del cinghiale in aree “cuscinetto” a cavallo di queste strade. L’attuale Commissario ha avviato, attraverso la concertazione con il Ministero della Sanità e con quello dei Trasporti, raggiungendo un accordo per la copertura finanziaria, un piano di installazione di recinzioni proprio lungo le autostrade. Questo non perché l’Italia si stia improvvisando, bensì perché guardiamo a quanto accaduto anche in altri paesi europei come il Belgio. Proprio il Belgio è riuscito ad affrontare la malattia e debellarla in un arco di tempo relativamente breve, con una enunciazione chiara rispetto a quelli che sono i passi da compiere: la prima cosa da fare è contenere la fauna selvatica all’interno di un areale, affinché la stessa fauna selvatica non contamini la restante popolazione selvatica non infetta. E, sembra un paradosso, questo lo dico anche a tutela della stessa fauna selvatica, che deve essere gestita prima che possa infettarsi ed arrivare a sterminarsi per mano di un virus che agisce in maniera dolorosa, ovvero di emorragie interne. E tutto questo perché il contenimento della fauna selvatica all’interno di un areale deve avere anche lo scopo di proteggere gli allevamenti che ne sono al di fuori!
Parlando invece di impatto economico, è possibile fare una stima dei danni?
Sono enormi e su più fronti. Purtroppo, questa “piaga” ha un impatto importantissimo di miliardi di euro a livello mondiale, e purtroppo non esistono vaccini attualmente in commercio a protezione del settore. Il commissario, che è stato insignito della sua attività ad agosto, non ha potuto far altro che portare avanti delle ordinanze che sono state per certi versi necessarie e che stanno sostanzialmente cercando di tutelare il patrimonio che è al di fuori dell’areale contaminato. Oggi questo areale impatta per circa il 20% della produzione della Dop, ma non solo. Purtroppo, le restrizioni fatte sugli allevamenti all’interno di questo areale generano due problematiche: la prima problematica è di tipo diretto. Infatti, gli allevamenti che vengono contaminati direttamente dalla Peste suina africana sono oggetto di abbattimento, e sono quindi indennizzati dal Ministero della Sanità. E poi ci sono i danni indiretti. Sono i danni che l’intero comparto subisce, partendo dagli allevamenti contenuti all’interno di questa zona di restrizione, che stanno soffrendo perché non si possono movimentare gli animali se non verso i macelli designati. Purtroppo, a differenza di altri Stati membri, noi viviamo di export. Basti pensare ai prosciutti! Quindi l’impatto che l’Italia ha rispetto agli altri Paesi membri è un impatto molto più significativo stimato in circa 20 Milioni di mancato export al mese.
Mi sembra di capire però che la cascata di danni non si fermi qui…
Sicuramente il rallentamento della movimentazione degli animali crea anche dei problemi di densità all’interno degli allevamenti. Inoltre, coloro che hanno subìto il danno diretto, e quindi l’abbattimento degli animali, sono nella situazione in cui non riescono a continuare la propria attività perché non hanno più gli animali all’interno dell’allevamento. Tuttavia, per loro manca ancora una moratoria dei mutui, perché inevitabilmente l’azienda non ha la capacità di autosostentamento e non ha una cassa integrazione (caratteristica tipica del nostro settore, a differenza altri). Auspico di trovare una soluzione per far sì che quel patrimonio umano, cioè delle persone che si sono specializzate all’interno del nostro settore, non venga disperso. Senza poi contare le penalizzazioni dal punto di vista economico per gli allevamenti che macellano presso le strutture designate, perché queste carni non possono essere esportate verso gli altri paesi terzi. Poi ci sono gli allevatori che invece non possono movimentare i propri suinetti per l’impossibilità alla movimentazione da prima e per mancanza di aziende libere nelle zone di restrizione in cui accasare i propri suinetti.
Cosa è successo a chi non ha potuto spostare gli animali durante le restrizioni (dure ma necessarie) imposte dalle Ordinanze?
Ognuno si è ingegnato come poteva nella gestione del sovrappopolamento. L’allevatore si è trovato costretto a gestirlo in modo autonomo: l’unica possibilità che aveva era quella di mandare al macello dei suinetti dà vita che però dovevano essere sostanzialmente soppressi (non macellati) perché difficilmente gestibili negli impianti di macellazione, oppure riempire tutti gli spazi disponibili dell’allevamento. Ecco che si è creata una situazione drammatica perché questi allevamenti non hanno avuto entrate ma hanno avuto tante spese per continuare ad alimentare i propri animali.
Cosa risponde a chi addita gli allevamenti intensivi come industrie di epidemie?
Essere aperti al dialogo è sempre importante perché ogni punto di vista deve essere rispettato. Però ripeto quello che ho detto precedentemente relativamente alla Peste suina africana: non è nata in Italia, non è nata in Europa, è nata in un paese dove di allevamenti intensivi ce ne sono pochissimi, ovvero in Africa. Quindi vorrei vedere la problematica dall’altro punto di vista: se correttamente gestita nel selvatico, non avrebbe causato le problematiche che oggi il settore suinicolo sta vivendo. Penso che strumentalizzare una problematica che oggi il settore suinicolo sta vivendo in modo pesante a causa di una non corretta gestione della fauna selvatica sia quantomeno ingiusto.
L’intervista è disponibile per i nostri abbonati sulla Rivista di Suinicoltura n. 10/2024
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