«Made in Italy, da qui costruire la ripartenza»

È questa l’opinione di Elio Martinelli, presidente di Assosuini: «Serve una vera e propria rivoluzione del settore, guidata dalla politica, per promuovere l’export italiano e per rafforzare filiere che, ad oggi, stentano a decollare»

«La zootecnia italiana sta vivendo un momento di grandi incertezze economico-politiche e di continui cambiamenti. È necessario coniugare sostenibilità e autosufficienza delle produzioni, valorizzando filiere di pregio e promuovendo un sistema trasparente di comunicazione col consumatore. Per farlo, però, sono necessari sostegni economici e un dialogo efficiente tra i diversi anelli della filiera». A sostenerlo è Elio Martinelli, presidente di Assosuini, che ci spiega nel dettaglio il suo punto di vista.

Elio Martinelli

«Oggi siamo in una situazione strana, un periodo pieno di incognite - afferma Martinelli -. Non è un problema unicamente economico, ma piuttosto un’incertezza di portata mondiale. Siamo in una fase complessa, perché accanto alle incognite del mercato e a quelle più generali dovute al Covid-19, siamo esposti anche all’onda speculativa. Stiamo attraversando una fase in cui i cambiamenti radicali sembrano all’ordine del giorno. In tutto questo, a livello mondiale abbiamo preso atto che energia, logistica, trasporti e commercio sono tutt’altro che semplici. Fra merce che non arriva, i noli alle stelle, il boom delle materie prime, lo scenario è preoccupante».

Lei è presidente di Assosuini. Il suo settore come ha vissuto questa situazione?

«Con incertezza, insicurezza e ancora oggi senza sapere cosa aspettarsi nell’immediato – afferma Martinelli -. Siamo circondati da segnali contrastanti e da così tante incognite che è complesso predire quale direzione prenderanno i mercati mondiali».

«Quasi due anni fa - continua -, con l’esplosione del Covid, abbiamo vissuto il panico quando il prezzo dei suini è passato da 1,80 a dicembre 2019 a 1,03 euro/kg a giugno 2020. E a novembre 2021 eravamo in una condizione prossima al tracollo, fra i listini in discesa e i costi di gestione alle stelle, fra materie prime alimentari ed energia. E il costo energia lo vivremo come catena di approvvigionamento nei prossimi mesi, fino ad ora abbiamo subìto solo le prime avvisaglie dei rincari. In quest’ottica anche lo scenario geopolitico e le tensioni fra Russia e Stati Uniti e fra Russia e Ucraina potrebbero influire sull’andamento dei prezzi del gas e delle forniture verso l’Europa».

È a rischio il futuro delle imprese, secondo lei?

«Spero di no, ma temo di sì. Siamo in una condizione di fragilità tale che non possiamo pensare di sopportare squilibri di mercato così evidenti. Nel mese di dicembre i prezzi dei suini hanno ripreso quota, ma l’aumento dei costi è molto marcato e l’adeguamento dei prezzi dei prodotti agricoli o è assente, o non tiene il passo dei rincari».

«Vediamo una situazione analoga nel settore del latte – continua Martinelli -, non sono certo che gli adeguamenti al rialzo rispondano alle esigenze reali degli allevatori. Allo stesso tempo, dobbiamo essere consapevoli che le tensioni sui prezzi hanno colpito tutti gli anelli della filiera. Nei prossimi mesi ci aspettano cambiamenti epocali».

La riforma della Pac e il New Green Deal impongono obiettivi ambiziosi per agricoltura e zootecnia. Condivide tale impostazione?

«Certo – dichiara il presidente di Assosuini -. Quando si parla di diminuzione di antibiotici, di riduzione degli agrofarmaci e di minori emissioni in atmosfera, si risponde alle esigenze dei consumatori».

«Allo stesso tempo - prosegue -, abbiamo bisogno di produrre di più e in modo più competitivo. L’agroalimentare in Italia, con un fatturato di 550 miliardi di euro, è strategico per il nostro Pil, ma dobbiamo essere consapevoli che il Paese non è autosufficiente. Come coniugare sostenibilità ambientale e autosufficienza? Il Covid ci ha costretti ad affrontare il problema della sovranità alimentare, dobbiamo dare risposte a una popolazione mondiale che cresce e necessita di proteine animali, anche se il vento soffia in senso contrario».

La zootecnia quindi ha bisogno di investire e di adeguarsi a tecniche di produzione più sostenibili?

«Sì – risponde Martinelli -. E servono investimenti per soddisfare tali necessità, perché l’imprenditore da solo non ce la fa, a cominciare dall’efficentamento delle strutture».

Come rispondere alle critiche, non sempre giuste, che vengono sollevate nei confronti della zootecnia sul fronte ambientale?

«Dobbiamo diventare tutti più trasparenti ed essere corretti nella comunicazione, consapevoli che il benessere animale è un’opportunità, anche di natura economica. È necessario capirlo come imprenditori, ma anche trasmettere al consumatore i passi avanti compiuti, che non sono pochi. Abbiamo già ridotto l’uso di antibiotici e di agrofarmaci nei campi e siamo attenti agli aspetti ambientali, ma spesso non siamo bravi a raccontarlo, per cui subiamo le battaglie ideologiche di una frangia dei consumatori – spiega Martinelli -. Ma sono convinto che la verità verrà a galla».

Il dibattito degli ultimi mesi ha messo in evidenza anche il tema della corretta informazione e su questo l’approccio all’etichetta si è diviso tra favorevoli e contrari al Nutriscore. Cosa ne pensa?

«Lo ha detto bene lei: dobbiamo informare correttamente. Non possiamo accettare sistemi di disinformazione, che condizionano o disorientano i consumatori. Tra i temi che assumeranno un ruolo sempre più centrale ci sarà quello dell’alimentazione sana ed equilibrata, sia per i risvolti nei confronti della salute umana sia per le modalità con le quali otteniamo il cibo. Dobbiamo ridurre le emissioni in ogni frangente produttivo».

Quali sono le fragilità del sistema agricolo italiano?

«Abbiamo limiti di natura dimensionale, con aziende agricole ancora troppo piccole e frammentate e problemi di ricambio generazionale – spiega il presidente di Assosuini -. Bisogna prendere atto che i processi di aggregazione possono avvenire in alcuni contesti geografici, come la Pianura padana, mentre in aree di collina e di montagna è molto più complesso, ma i cambiamenti climatici in atto evidenziano quanto sia necessaria la cura del territorio. Senza una marginalità soddisfacente, gli agricoltori abbandonano il settore e i giovani non vi si avventurano. In quest’ottica, una maggiore integrazione fra produzione agricola e turismo sarebbe utile, anche per promuovere la qualità dei diversi territori e per dilatare la possibilità di soggiorno nell’arco dell’anno».

Quali altre criticità individua nel sistema agroalimentare italiano?

«Scontiamo la difficoltà di essere competitivi a livello internazionale per una forte carenza organizzativa – dichiara Martinelli -. Non riusciamo a fare sistema e senza un coordinamento chiaro è impossibile pensare di crescere nell’export, anche se le potenzialità per fare meglio di altri Paesi come Germania e Olanda ci sarebbero, perché loro non possono contare sull’identità e la qualità delle tante Dop italiane».

Per affermarsi è meglio la Dop o il made in Italy?

«La Dop è una certificazione importante, il made in Italy un brand più emozionale e carico di effetti - chiarisce Martinelli -. Servono entrambi, anche se sappiamo bene che alcuni acquisti, anche sul piano alimentare, sono trainati dall’emotività. Per cui direi che, seppure sia necessario dare spazio a entrambi, in alcuni frangenti il made in Italy vero può avere maggiore forza, soprattutto quando pensiamo all’export».

Quando parla di autosufficienza, quale dovrebbe essere la strada italiana?

«Crescere! I margini ci sono tutti. Abbiamo una forte dipendenza dall’estero, che possiamo colmare. Se guardiamo alla zootecnia, possiamo crescere ancora nel settore lattiero caseario e molto di più nell’ambito della carne bovina, dove il tasso di autoapprovvigionamento dell’Italia si aggira intorno al 50% e alla carne suina, dove siamo intorno al 60%, ma per accelerare dobbiamo rivoluzionare l’intera filiera e fare in modo che l’allevatore diventi un imprenditore. Il dialogo all’interno della filiera deve essere reale, basato su dati concreti e su obiettivi certi e condivisi. Ritengo che l’Italia possa avere margini di crescita per ulteriori 150 miliardi diventando il settore per il nostro Pil e, per fissare un obiettivo alla portata per l’export, direi che il parametro da utilizzare è questo: 30-100».

Che cosa significa?

«Obiettivo 100 miliardi di export nel 2030 – chiarisce Elio Martinelli -. Più che fattibile, se ci sarà una strategia condivisa per promuovere l’agroalimentare made in Italy e contrastare l’Italian sounding. Anche se, mi rendo conto, non è facile sostituire prodotti a basso costo, che richiamano solo nell’aspetto l’italianità, con altri prodotti veri e certificati italiani, di maggiore qualità ma anche destinati a una fascia di consumatori più esigenti. Ritengo che l’obiettivo, per le filiere italiane, debba essere il circuito a più elevato valore aggiunto e consumatori di fascia elevata, con capacità di acquisto importante, e in grado di distinguere l’alto livello delle produzioni e, di conseguenza, riconoscerne il corretto valore anche sul piano economico».

Per promuovere il made in Italy servirebbe una cabina di regia efficiente. Ma chi la dovrebbe gestire?

«Dobbiamo superare gli egoismi e lavorare per avere filiere operative e reali, riducendo i disequilibri e creando strategie in grado di assicurare a tutti i soggetti coinvolti dei margini di guadagno, perché non possiamo più pensare che vi sia, all’interno della catena di approvvigionamento, chi continua a guadagnare e chi invece continua a perdere. Serve un rapporto virtuoso – continua Martinelli -, perché la “giungla commerciale” non va bene per una società che deve crescere. Abbiamo bisogno di azioni di marketing, strategie definite e condivise per la produzione, la trasformazione, la vendita del prodotto. Chiaramente, non possiamo sperare nell’autogoverno, ma è necessario che sia la stessa Presidenza del Consiglio, di concerto con i vari attori della filiera, a studiare e normare un piano di rilancio, con obiettivi numerici ambiziosi, esempio 30-100 come prima proposto. Con le buone intenzioni e basta, non si va da nessuna parte».

Una visione a lungo termine come si dovrebbe articolare?

«Abbiamo bisogno di coordinare ricerca e sviluppo, sostenibilità, piattaforme logistiche e trasporti, programmazione produttiva e politiche di ammodernamento ed efficientamento. Confido che il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, ingegnere, con competenze scientifiche, voglia portare avanti strategie condivise non solo a livello agricolo e alimentare, ma in grado di abbracciare anche l’export, la logistica, le infrastrutture, il turismo. Se vogliamo puntare sull’export, la nostra vera opportunità, dobbiamo muoverci su più livelli, creando un sistema Italia nuovo e avviando un dialogo a livello internazionale».

Le nuove tecnologie possono contribuire alla rivoluzione dell’agroalimentare?

«Assolutamente. La digitalizzazione, l’analisi dei big data, l’innovazione sono imprescindibili. Pensiamo alla genomica, alle tecnologie di evoluzione assistita, alle opportunità che abbiamo per contrastare i cambiamenti climatici. La strada da percorrere è quella».

Il futuro sarà delle carni sintetiche?

«No, non credo proprio – conclude Martinelli -. Al di là dell’ideologia, non ci sono basi scientifiche per la sostituzione reale della carne, per non parlare del gusto, elemento tutt’altro che secondario quando trattiamo di nutrizione. Deciderà il consumatore e noi dobbiamo fare in modo di fornire informazioni corrette, trasparenti e veritiere, senza ideologie».

La Commissione europea spinge sul biologico. Cosa ne pensa?

«Dobbiamo essere innanzitutto consapevoli che il biologico non si coniuga con l’allevamento intensivo. Ma abbiamo l’opportunità per gestire entrambi i modelli produttivi, avendo enormi spazi che possono essere dedicati al biologico, a partire dalle aree di montagna e di collina. Sono peraltro produzioni di nicchia che si integrano perfettamente con l’agriturismo, la vendita diretta, l’ospitalità rurale e la promozione di un’agricoltura green che ha un numero sempre maggiore di estimatori. Dobbiamo tuttavia avere ben presente che il solo bio rischia di non rispondere più alle esigenze dei consumatori, che guardano alla sostenibilità e alla naturalità in maniera più ampia. Il modello organico non significa, allo stesso tempo, la fine di altre soluzioni. L’attività intensiva, ad esempio, dovrà diventare il più sostenibile possibile, ma non soccomberà di certo, né ritengo debba essere demonizzata. Abbiamo bisogno di più cibo e di qualità».

«Made in Italy, da qui costruire la ripartenza» - Ultima modifica: 2022-02-28T16:04:43+01:00 da K4

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