Caso Ferrarini, il braccio di ferro per salvare il gruppo

caso Ferrarini
Da una parte il piano di rilancio del gruppo Bonterre, Opas & C e dall’altro la proposta di Pini-Amco. Entrambi sostengono di avere la strategia vincente per il rilancio industriale. Il punto della situazione

Se non ci fosse l’incertezza per il futuro di circa 700 dipendenti, sarebbe molto più facile scrivere della crisi del Gruppo Ferrarini di Reggio Emilia, società che è entrata in crisi oltre due anni fa e che ammonta una situazione debitoria di circa 250 milioni di debiti e 1.500 creditori, in base ai numeri che trapelano.
La questione è complicata, ancora in itinere, con ricorsi pendenti, ricusazioni del Tribunale di Reggio Emilia che ha in mano la vicenda e due parti contrapposti che hanno presentato due proposte differenti e che, se non proprio accusano gli “avversari” di non aver indicato la migliore soluzione per il salvataggio di un gruppo di peso per l’agroalimentare italiano (che comprende prosciutti, salumi e formaggi, con marchi anche storici come Vismara, oltre a Ferrarini), sostengono di avere la strategia vincente per il rilancio industriale. Non avendo l’onere della decisione e nemmeno la competenza per farlo, ci limitiamo alla cronaca.

La cordata di Bonterre, Opas & C

Anticipiamo subito: le parti in causa sono, come detto, due. Da un lato il Gruppo Bonterre – Grandi Salumifici Italiani, che già in passato aveva fatto trapelare il proprio interesse e che all’inizio di agosto ha depositato un piano di rilancio con altri partner: Opas, che con un milione di suini macellati ogni anno nello stabilimento di Migliarina di Carpi è il più grande macello cooperativo d’Italia (e probabilmente il più grande in assoluto a livello nazionale) e può contare su una base produttiva allevatoriale piuttosto coesa, HP, società attiva nel sostegno e nell’innovazione nel settore Agrifood, partecipata da Consorzi agrari d’Italia e da Bonifiche Ferraresi. A livello bancario, sarebbero state Intesa Sanpaolo e Unicredit – due istituti fortemente esposti dalla situazione di bilancio della Ferrarini – a spingere per formulare un’offerta e dare continuità all’azienda, con un piano di consolidamento, rilancio ed espansione.

caso Ferrarini

A sostegno della proposta avanzata da Bonterre – Grandi Salumifici Italiani, Opas & C, si è espresso tutto il mondo agricolo e della rappresentanza del sistema cooperativo. Un fatto più unico che raro, se consideriamo che l’agricoltura è forse l’unico settore produttivo nazionale che sconta divisioni e contrapposizione non si sa se di natura ideologica, personale o altro, ma in conseguenza delle quali le posizioni non sono mai univoche. In questo caso, però, si sono stretti intorno alla solidità della proposta e all’assicurazione della tutela del made in Italy sul piano del processo e del prodotto (i suini).

Sostenere il made in Italy

La questione dell’italianità ha varcato anche le soglie del Parlamento, con l’interrogazione di Michele Anzaldi di Italia Viva, il quale a fine agosto ha dichiarato: «Sul salvataggio Ferrarini il Governo ha il dovere di sostenere compatto il fronte made in Italy ai massimi livelli. Sarebbe davvero incomprensibile se un’azienda statale come Amco, che ricade sotto la responsabilità del ministero del Tesoro, preferisse davvero l’offerta che non dà garanzie in termini di italianità, qualità del prodotto, filiera corta». Non è tutto, perché ha aggiunto anche che qualora «il fronte made in Italy non dovesse prevalere, c’è il rischio concreto di delocalizzazione all’estero e che si vada incontro a uno spreco di risorse pubbliche. Occorre intervenire subito».
La cordata di Bonterre – Grandi Salumifici Italiani, Opas & C avrebbe già depositato 70 milioni di euro (secondo altre fonti 50 milioni), garantiti tramite fidejussioni a garanzia.

La cordata Pini-Amco

Il colpo di scena, peraltro non del tutto inatteso, dal momento che le voci si rincorrevano da luglio – dicono i bene informati – si è verificato alla fine di agosto, quando al Tribunale di Reggio Emilia, è stata inoltrata una nuova proposta concordataria da parte del Gruppo Pini, gigante nella produzione di bresaola e nella lavorazione di carni suine, con stabilimenti in Italia, Spagna, Ungheria, sostenuta dalla famiglia Ferrarini e con la partecipazione di Amco, società a integrale azionariato pubblico.

La proposta, secondo quanto emerso, assicurerebbe il rilancio dell’impresa, salvaguardando i livelli occupazionali, evitando ricadute negative sull’indotto e soddisfacendo i creditori privilegiati e in pre-deduzione integralmente e i creditori chirografari al 33 per cento.
I colpi di scena non sono finiti, perché nell’arco di una settimana dalla stesura dell’articolo, informa Opas, «la Corte di Appello (di Bologna) deciderà sui reclami proposti nell’interesse della Cordata, in particolare sul fatto abusivo che la proposta Pini non sia una proposta nuova rispetto alla precedente e sulla competenza territoriale del Tribunale delle Imprese di Bologna anziché il Tribunale fallimentare di Reggio». La palla ora spetta ai giudici. Con buona pace delle famiglie coinvolte e condannate ancora a essere “fra color che son sospesi”.


La posizione di Opas

La Rivista di Suinicoltura è riuscita a parlare con Lorenzo Fontanesi e Valerio Pozzi, presidente e direttore di Opas, i quali hanno commentato il piano presentato al Tribunale di Reggio Emilia.

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Lorenzo Fontanesi

«La nostra proposta – dicono –, con differenze rispetto a Pini (equity subito pronto garantito da fideiussioni irrevocabili e depositi in conto vincolati per oltre 30 milioni; linee di credito già deliberate sino a 37 milioni, onde evitare tensioni finanziarie durante lo sviluppo del piano, garanzia e tempi di pagamento creditori – privilegiati e 10% garantiti nei primi 12 mesi, quindi earn out – attribuzione del surplus -, onde evitare rischio risoluzione del concordato per inadempimento), è migliorativa: azioni di responsabilità nei confronti degli ex amministratori e di tutti i soggetti responsabili (ricavato integralmente ai creditori, stimato  ben oltre la somma di soli 4 euro mil della proposta Pini-Amco).
«Noi proponiamo di ampliare lo stabilimento di Reggio con mantenimento dei livelli occupazionali previsti anche dalla proposta Pini – proseguono -. Possiamo mantenere quindi la territorialità dei dipendenti di Ferrarini non solo per gli operai ma anche per gli impiegati, in quanto abbiamo disponibili ampi spazi nella palazzina uffici di Reggio Emilia, attigua allo stabilimento, con mensa e altro. I tempi per l’ottenimento delle autorizzazioni all’ampliamento dovrebbero essere piuttosto brevi».

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Valerio Pozzi

«La Ferrarini – dichiarano – è fallita a causa di gravi errori imprenditoriali. All’opposto, attorno a Bonterre stiamo costruendo un campione dell’industria alimentare italiana con volumi idonei a presidiare il mercato nazionale e internazionale, mantenendo un forte radicamento territoriale per valorizzare la tradizione dei nostri prodotti. La partnership stabile con Opas e HP garantisce una filiera italiana integrata che risale dall’allevamento addirittura alla mangimistica e questo permetterà di far sì che i prodotti e in particolari i cotti Ferrarini mantengano e incrementino caratteristiche d’eccellenza, invece di far spegnere il marchio. In questo gruppo e in questo contesto i lavoratori troveranno la sicurezza che non possono trovare nelle promesse di imprenditori improvvisati in questo settore. Per noi, proprio a differenza di quegli imprenditori, il fattore reputazionale è primario e deve durare nel tempo».

Caso Ferrarini, il braccio di ferro per salvare il gruppo - Ultima modifica: 2020-09-29T16:39:09+02:00 da Lucia Berti

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