«Un messaggio forte per il mondo suinicolo, al quale vogliamo dire che Aral c’è ed è sempre più impegnata a rilanciare il ruolo dell’Associazione a sostegno di un settore fondamentale nel panorama zootecnico lombardo». Questo il messaggio introduttivo lanciato dal presidente Aral Mauro Berticelli in apertura del convegno “La Peste suina africana - Una malattia emergente, da conoscere”, organizzato sabato 6 novembre a Montichiari nell’ambito della 93sima edizione della Fiera Agricola Zootecnica Italiana (Fazi), che ha fatto il punto su questa malattia dall’impatto devastante, attualmente molto diffusa in alcuni Paesi dell’Europa dell’Est.
Lombardia, Veneto e Emilia temono l’arrivo della malattia
«La Psa sta tornando alla ribalta – ha confermato in apertura Marco Farioli responsabile del Servizio veterinario di Regione Lombardia -. L’est Europa è pieno di focolai e la paura è che la malattia possa arrivare anche in Lombardia, Veneto o Emilia perché questo avrebbe un impatto disastroso sul territorio nazionale. Soprattutto in Lombardia, dove ci sono 4,5 milioni di suini e 1600 allevamenti intensivi concentrati nelle province di Cremona, Brescia e Mantova. E dove ogni anno sono macellati circa 5 milioni di animali, con forte contributo alle esportazioni di prodotti tipici made in Italy. Facile quindi capire quale sarebbe l’entità del danno economico nell’eventualità che la malattia potesse arrivare anche nei nostri allevamenti, sia per la decimazione del patrimonio suinicolo visto che la Psa è mortale per i suini contagiati anche se totalmente innocua per l’uomo, che per il danno economico indiretto perché ogni esportazione verrebbe subito bloccata. Anche i cinghiali hanno un ruolo importantissimo nella diffusione di una malattia nella quale gioca un fattore prevalente anche il fattore umano: potrebbe bastare un salume contagiato portato da un paese dove la Psa è attualmente presente per scatenare un focolaio».
La Regione si è mossa con un primo provvedimento che prevede misure di biosicurezza stabilendo una serie di controlli che vengono tuttora svolti per verificare il rispetto delle regole in tutti gli allevamenti.
Approfondimenti sulla patologia
Mario Chiari, anche lui di Regione Lombardia, ha ulteriormente approfondito il profilo della patologia. «È mortale, colpisce i suini domestici e i cinghiali, nell’ambito di dieci giorni il capo contagiato muore. Il virus ha un altissimo indice di resistenza negli alimentari: sembra infatti che la Psa sia scoppiata inizialmente in Georgia perché i cinghiali si alimentavano in discariche con scarti di carni prodotte con capi infette. Da lì si è visto l’impatto mostruoso della Psa. In Italia è stata colpita la Sardegna, ma con un virus con caratteri diversi. In Cina i danni sono stati enormi. Attualmente il fronte più attenzionato è l’epidemia in corso tra Polonia e Germania, poi c’è la grave situazione epidemica della Romania da ormai tre anni, che coinvolge allevamenti di piccole e medie dimensioni. Un bagliore è rappresentato dal fatto che applicando la strategia predisposta dall’Unione europea si possono ottenere risultati come dimostrato da quanto successo in Belgio e Repubblica Ceca, che l’hanno eradicata: ma per capirci hanno dovuto utilizzare l’esercito. Uno dei problemi maggiori è che una volta che l’infezione entra nel territorio da quella nazione non possono più muoversi derrate e animali. I focolai maggiori comunque non sono negli allevamenti intensivi ma nelle aziende famigliari da massimo quattro capi allevati per autoconsumo: il tasso di morbilità è del 100%, nel senso che in un allevamento se un capo prende il virus si ammalano tutti, mentre la mortalità è del 95%».
I fattori di rischio sono quindi rappresentati dall’introduzione di animali infetti, alimentazione con scarti contaminati, movimentazione illegale di suini, macellazioni famigliari, interfaccia di cinghiali con suini domestici.
La sorveglianza passiva è fondamentale
«I cinghiali – ha avvertito Mario Chiari - mantengono l’epidemia attiva sul territorio seppure in questo caso la morbilità sia più bassa, intorno al 30%, derivante dallo stato selvatico. Ma le carcasse di cinghiali andrebbero immediatamente rimosse perché il virus rimane attivo anche per mesi durante la stagione invernale. Considerato che non esiste un vaccino, la prevenzione con biosicurezza anche nella gestione del selvatico è la nostra prima arma di difesa. Ma serve anche grande attenzione: il riconoscimento tempestivo è fondamentale, difatti più siamo veloci e prima riusciamo ad agire meno grande sarà l’area su cui dovremo intervenire. L’attività di sorveglianza passiva è comunque attiva in tutta la regione: un sistema che ci permette di essere abbastanza fiduciosi sulla possibilità di individuare il virus sul territorio. Ma tutti devono fare la loro parte, sia chi rinviene una carcassa di cinghiale morto che deve subito essere segnalato, che i piccoli allevamenti famigliari che devono subito segnalare l’eventuale morte di capi nel loro territorio. Importante collaborare e rendersi aperti al dialogo per evitare che questa Psa possa arrivare anche da noi con impatti devastanti».
Biosicurezza, caposaldo per prevenire le malattia
Claudia Nassuato di Ats Brescia è poi entrata maggiormente nel dettaglio delle misure di biosicurezza previste per evitare l’ingresso del contagio dall’esterno come previsto dal Regolamento Ue 429 del 2016 che ha caratterizzato il concetto di biosicurezza come caposaldo per prevenire le malattia.
La portata economica del comparto
Infine, al direttore Anas Maurizio Gallo il compito di inquadrare la portata economica del comparto suinicolo in una prospettiva europea segnata da numeri in lieve flessione: le previsioni per il decennio 2020-2030 parlano di produzioni in calo da 23 a 22 milioni di tonnellate, consumi pro-capite da 33,4 a 32 chilogrammi, export da 5,5 a 4 milioni di tonnellate. Dati significativi anche per la Lombardia, dove si concentra il 49,9% dei suini nazionali, destinati per l’80% al circuito Dop: le 5 regioni del Nord rappresentano comunque il 90% di un settore che vede anche un ruolo predominante della trasformazione, con 32 milioni di prosciutti crudi, 44 milioni di prosciutti cotti, 600 mila tonnellate di salumi cui si aggiunge un fabbisogno nazionale di carne fresca pari a 730 mila tonnellate. Per soddisfare questi numeri l’industria nazionale di trasformazione deve anche importare circa un milione di tonnellate di carni, in particolare 50 milioni abbondanti di tagli coscia: per l’autosufficienza servirebbero ancora circa 27 milioni di capi.
«La pressione dell’opinione pubblica sfavorevole all’allevamento intensivo è ormai una costante con la quale bisognerà abituarsi a fare i conti – ha detto Gallo motivando queste previsioni al ribasso -. La sostenibilità è ormai diventato un dogma: sul fronte del benessere animale a partire dal 2023 è prevista una riformulazione delle norme a partire dal bando delle gabbie parto. Si parla di un periodo di transizione che la Germania ha già allungato al 2035: indicazione che potrebbe prevalere anche a livello europeo. Verrà inoltre aumentato lo spazio a disposizione dei suini con conseguente riduzione della capacità produttiva, ci sarà una maggior attenzione ai materiali manipolabili, il bando al taglio della coda, per la castrazione l’indicazione è quella di imporre l’anestesia a livello locale. In Italia si sta lavorando ad un sistema volontario di certificazione del benessere animale per uniformare tutti e preparare alla fase di transizione: le stime per l’adeguamento indicano però un costo di 40 euro a capo per un buon adeguamento, di 94 euro per un adeguamento ottimale».
Investimenti quindi importanti per i quali sarebbero importanti anche adeguate misure di sostegno.