La Peste suina africana avanza nella Capitale

peste suina
Il profilo genetico del virus isolato nel Lazio (genotipo 2) mostra somiglianza genetica con quello circolante in Piemonte e in Liguria, nonché nel Nord Europa

Sale a otto il numero di carcasse di cinghiale risultate positive alla Peste suina africana nel parco dell’Insugherata nel Comune di Roma, all’interno del grande raccordo anulare. Ma il numero è destinato a crescere. Nella sola provincia di Roma i cinghiali in libertà sarebbero già più di 20 mila.

La diffusione della Psa rischia di pregiudicare tutto l’indotto della suinicoltura laziale, che conta oltre 12 mila allevamenti di suini per un totale di 43 mila capi. «Il quadro è in continua evoluzione», ha dichiarato il commissario straordinario per l’emergenza, Angelo Ferrari. E intanto una decisione di esecuzione della Commissione europea, a firma della commissaria alla Salute Stella Kyriakides, ha stabilito che l’Italia deve provvedere ad istituire “immediatamente una zona infetta in relazione alla Peste suina africana”, che comprenda varie aree del comune di Roma. “L’Italia provvede – si legge – affinché non siano autorizzati i movimenti di partite di suini detenuti nelle aree elencate come zona infetta e dei relativi prodotti verso altri Stati membri e Paesi terzi”. Il provvedimento “si applica fino al 31 agosto 2022”.

Il primo caso di Psa a Roma, rilevato nel cinghiale trovato morto il 4 maggio, ha trasformato l’allarme sul fenomeno in emergenza nazionale. La responsabile Cia nazionale settore zootecnia Angela Garofalo spiega che il profilo genetico del virus isolato (genotipo 2) mostra somiglianza genetica con quello già circolante in Piemonte e in Liguria, nonché nel Nord Europa. «L’emergenza era già stata drammaticamente preannunciata per il proliferare indisturbato dei cinghiali in tutta Italia. Il problema - incalza Garofalo - non è di oggi, né di inizio 2022, quando scoppiò il focolaio in Piemonte e successivamente in Liguria, dove tutt’ora gli animali infetti continuano ad aumentare e hanno raggiunto quota 119».

Come più volte sottolineato da Cia - Agricoltori Italiani, la cattiva gestione della fauna selvatica da parte dello Stato, attraverso la delega alle Regioni, sta determinando importanti problemi alle comunità agricole, e non solo, che vivono nelle aree interne e marginali. «Il blocco per lunghi periodi di ogni attività in queste aree rischia di compromettere qualsiasi forma di futuro in aree già molto provate», puntualizza l’esperta.


La dimensione dell’emergenza

Il cinghiale è l’ungulato più diffuso in Italia, sia in termini distributivi che di consistenza. L’areale, come evidenziato dalla Cia, si estende per più del 64% del territorio italiano. I danni all’agricoltura sono aumentati del 60% nell’ultimo anno (+2,5 milioni di euro), mentre gli incidenti stradali registrati a causati degli ungulati sono poco meno di 500 tra il 2018 e 2021.

«La popolazione dei cinghiali su tutto il territorio nazionale è in sovrannumero e in crescita esponenziale. L’emergenza - afferma Garofalo - non è solo di tipo sanitario, la presenza eccessiva di fauna selvatica nelle campagne e nei centri urbanizzati è una minaccia per la biodiversità, distrugge gli habitat naturali attraverso uno sfruttamento eccessivo delle risorse, provocando un impatto sociale ed economico elevato».

Possibili interventi da attuare

«È urgente attivare un monitoraggio a tappeto della popolazione - incalza Garofalo -. Come Cia chiediamo inoltre, da quattro anni, la riforma della Legge 157 sulla fauna selvatica datata 1992 e ormai decisamente obsoleta». Considerando che il virus è stato confermato esclusivamente sul selvatico e nessun caso di contaminazione è stato riscontrato nel domestico, «appare evidente - prosegue - che per eradicare la malattia, o comunque contenerne la propagazione, sarà necessario intervenire efficacemente e velocemente sul selvatico con una campagna di riduzione del numero dei capi. Gli allevamenti professionali italiani non sono la fonte del problema, al contrario, sono sicuri e costantemente controllati».

Il nodo del controllo programmato della specie

È altrettanto urgente, secondo Garofalo, organizzare un controllo programmato della specie su basi scientifiche «attualmente difficile da realizzare, vista la carenza di criteri di gestione venatoria razionali ed omogenei. Per evitare che il virus arrivi negli allevamenti servono misure efficaci, incisive, che vadano oltre quelle ordinarie, dimostratesi insufficienti. Per riuscire ad ottenere un buon risultato in termini di eradicazione e contenimento della malattia tutti gli interessati, cacciatori, allevatori, animalisti e ambientalisti, devono accettare criteri di rigoroso controllo scientifico che possono essere garantiti soltanto da scienziati e tecnici specializzati e informati sulle realtà economiche del Paese. Agire con tempestività diventa fondamentale in questa fase, il danno diventerebbe irreparabile. Se le autorità continueranno a non prendere posizioni nette, molti agricoltori saranno costretti a chiudere le aziende».

Ricaduta economica settore suinicolo

I nuovi casi di Psa nella Capitale portano gli esperti a temere una rapida diffusione della malattia, che potrebbe rapidamente dilagare in altri parchi laziali e arrivare fino in Maremma. La Toscana conta 124.256 capi a rischio contagio dal virus, che dal cinghiale selvatico si trasmette rapidamente alla popolazione suina (letalità maggiore del 90%), mettendo a repentaglio la produzione italiana di insaccati e Dop, come la Cinta senese. La diffusione in Toscana comporterebbe, inoltre, specifica Cia, la macellazione d’emergenza in via cautelativa di tutti quei suini allevati allo stato semi-brado, più a rischio di contrarre l’infezione (circa 25 mila).

«Se si avverasse questo scenario – spiega Garofalo –, la ricaduta economica stimata sul settore sarebbe allarmante: circa 200 milioni di euro sul valore della produzione suinicola nelle due regioni (Lazio e Toscana), a cui si potrebbe aggiungere anche l’Umbria. Come Cia chiediamo rimborsi rapidi, senza vincoli e burocrazia, del 100% dei danni già subiti dagli agricoltori per la Peste suina».

La diffusione a macchia d’olio della Psa nel Centro Italia metterebbe in pericolo anche la limitrofa filiera suinicola dell'Emilia Romagna, che conta circa 1.200 allevamenti, 1,2 milioni di capi e produzioni pregiate come le Dop di Parma. Inoltre, comprometterebbe l’industria legata alla trasformazione, ma anche le attività turistiche, ricettive e di ristorazione delle aree interessate dal fenomeno. «Senza considerare il rischio dell’adozione di misure restrittive nell’import di carni suine da parte dei Paesi terzi, con danni economici pesantissimi alla filiera - 1,6 miliardi il valore dell’export - che pregiudicherebbero il valore aggiunto della qualità del marchio Made in Italy nel mondo», afferma Garofalo.

Paesi che richiedono l’indennità

Al momento, come evidenzia l’esperta, i Paesi terzi che richiedono l’indennità per l’intero Paese sono Cina, Giappone, Taiwan, Messico, Cuba, Serbia, Filippine, Indonesia, Perù, Tailandia (solo carni). Gli altri Paesi accettano invece il principio di regionalizzazione (vale a dire, non tutto il Paese subisce il blocco movimentazione merci, nel caso di infezione territoriale). Malgrado sussista tale principio, molti Paesi non lo accettano e tendono a evitare le transazioni commerciali fino a quando la situazione epidemiologica non sarà chiarita e le misure di contrasto alla diffusione del virus non saranno attuate.

La Peste suina africana avanza nella Capitale - Ultima modifica: 2022-05-23T13:25:29+02:00 da Annalisa Scollo

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