Sebbene il virus della peste suina africana (Psa) abbia una provenienza tutt’altro che europea, essendo originario dell’area sub-sahariana dell’Africa dove viene mantenuto nell’ambiente da zecche molli e dal facocero, le conseguenze dopo il suo ingresso in Europa sono ben note.
Purtroppo, non soltanto l’Italia si sta interfacciando con i numerosi focolai che imperversano sia nei cinghiali selvatici che anche in diversi allevamenti di suini domestici. Infatti, il virus è presente anche in Germania, riscontrato per la prima volta nel 2020 in questo paese, si è diffuso lentamente partendo dal bordo più a est e muovendosi all’interno della popolazione dei cinghiali selvatici verso ovest. Considerando l’elevato rischio di introdurre il virus anche nel comparto domestico, così come l’Italia anche la Germania sta lavorando da anni sull’implementazione delle misure di biosicurezza negli allevamenti di suini.
E, se da un lato le più comuni vie di trasmissione sono già incluse in tutti i protocolli migliori di biosicurezza volte a ridurre il rischio legato all’introduzione di oggetti e materiali contaminati tramite gli operatori, dall’altra avanza l’ipotesi che alcuni vettori non abbiano ancora sufficienti informazioni per essere esclusi dalla lista del rischio.
Sono infatti in corso ricerche sul potenziale ruolo di trasmissione del foraggio e degli alimenti, così come della paglia. Sembra che, addirittura, attraverso brevi distanze il virus possa spostarsi anche tramite l’aerosol. In più, sono in discussione la trasmissione meccanica a carico degli insetti (ad oggi non confermata), e il ruolo di vettori come uccelli e roditori.
Indagini epidemiologiche negli allevamenti d’oltralpe: manca qualcosa
Secondo uno studio recentemente pubblicato dall’Università di Hannover, raramente le indagini epidemiologiche condotte nei focolai domestici degli allevamenti in Lettonia, Polonia e Germania sono stati in grado di identificare chiaramente la via d’ingresso del virus in allevamento.
Chiaramente, in diverse di queste indagini epidemiologiche sono emerse lacune nella che sono state definite la base del rischio per l’ingresso della peste suina africana. Tuttavia, la presenza di focolai domestici rimasti attivi per più tempo a causa di ritardi nella loro individuazione piuttosto che nella loro estinzione può aver giocato un ruolo importante nella diffusione del virus in aree dove non era stata registrata sua la presenza nel cinghiale selvatico.
Autorità contro allevatori: il problema è il punto di vista
Dalla reintroduzione della peste suina africana in Europa, tutte le classi coinvolte nella suinicoltura sono state chiamate ad aumentare i propri sforzi per aumentare la sensibilità verso le misure preventive. Autorità competenti, associazioni di categoria, veterinari e allevatori sono tutti stati chiamati alle armi. Ma, come spesso accade, ottenere una conoscenza omogenea tra le classi di operatori e tra i diversi territori può essere una sfida enorme.
Da un lato, diversi allevatori sottovalutano il pericolo non percependo il rischio imminente che la peste suina africana puoi infliggere alle loro vite, dall’altro, la scarsa conoscenza delle autorità delle reali attitudini e convinzioni degli allevatori e del loro lavoro quotidiano che impediscono la giusta sinergia tra le parti.
Germania: i fondi economici non sembrano essere sufficienti a tutelare le scrofaie
L’università di Hannover ha coinvolto 81 allevatori tedeschi e li ha invitati a parlare apertamente della loro percezione della biosicurezza, mettendola anche in confronto alla sicurezza percepita invece dalle autorità competenti.
Certamente, il primo elemento a pesare sul piatto della bilancia è l’aspetto economico legato all’implementazione delle misure di sicurezza, sebbene la Germania, così come l’Italia, ha messo a disposizione degli allevatori fondi dedicati agli interventi in allevamento, e sebbene sia pratica comune in Germania quella di avere assicurazioni private che coprano le perdite finanziarie dovute ad eventi sanitari in allevamento.
In particolare, gli allevatori proprietari di scrofaie hanno espresso la propria preoccupazione e convinzione che i fondi pubblici e quelli provenienti dalle assicurazioni non siano in nessun modo in grado di coprire totalmente il tempo necessario e di costi conseguenti per far fronte ad un’eventuale depopolamento dell’allevamento in caso di focolaio. Al contrario, i proprietari di svezzamenti ed ingrassi si sono manifestati come i più sereni dal punto di vista economico.
Carenze nella biosicurezza obbligatoria: tutto il mondo è paese
Secondo molti degli allevatori tedeschi intervistati dai ricercatori dell’università di Hannover, la spinta maggiore all’implementazione della biosicurezza è la richiesta normativa. Ciò che è obbligatorio secondo il sistema legislativo tedesco, incoraggia l’allevatore a installare strutture preventive più efficienti nella sua azienda. Tuttavia, dallo studio è emerso che, malgrado le richieste normative, molti allevamenti presentavano delle lacune nella biosicurezza, in particolare relativamente alla recinzione perimetrale.
Quest’ultima, infatti, non è legalmente richiesta nei piccoli allevamenti, quando invece le associazioni di categoria trovano questa differenziazione alquanto critica, soprattutto considerando che le aziende più piccole sono proprio quelle additate dalla letteratura per essere ad alto rischio di introduzione della peste suina africana nel domestico.
Non si può fare altro che constatare un certo parallelismo tra questa diatriba tedesca e quanto accade in Italia, dove le richieste normative sulla biosicurezza faticano a raggiungere il 100% dell’applicazione in allevamento, sebbene l’Italia abbia visto un’enorme crescita da questo punto di vista negli ultimi due anni.
L’allevatore valuta la sua biosicurezza in modo molto realistico
È risaputo che la mancanza di conoscenza è alla base dell’implementazione delle misure di biosicurezza in allevamento. Nello studio tedesco però, gli allevatori hanno dimostrato di essere molto consapevoli del proprio livello di biosicurezza. In particolare, hanno dimostrato di essere molto realistici, perché sono quelli che maggiormente conoscono le dinamiche aziendali del proprio allevamento.
Alcune delle disparità tra la biosicurezza percepita dagli allevatori e quella valutata dalle autorità risiedono nella percezione dell’importanza di alcune specifiche misure, come per esempio come deve essere strutturata correttamente una zona filtro, e nella differente interpretazione della loro efficacia, come ad esempio l’utilizzo dei disinfettanti per le calzature.
Ad esempio, parlando proprio dell’utilizzo dei disinfettanti per le calzature all’ingresso dei locali, gli allevatori hanno sottolineato quanto, secondo loro, sia una pratica inutile nel momento in cui le scarpe da disinfettare non vengono prima pulite. C’è da dire che, effettivamente, i disinfettanti attivi contro la peste suina africana hanno bisogno mediamente di un’esposizione minima di circa 10 minuti, cosa che non può avvenire quando le calzature vengono immerse all’interno delle bacinelle di disinfettante.
I rischi incrollabili aumentano il fatalismo degli operatori
Tutto ciò che non è realisticamente applicabile in allevamento oppure realisticamente controllabile porta inevitabilmente al fatalismo degli allevatori. Per esempio, nello studio dell’Università di Hannover, molti allevatori si sono mostrati decisamente spaventati da roditori e uccelli, in quanto difficilmente controllabili. Questo porta spesso a sovrastimare la morbilità ed il rischio della peste suina africana, sebbene altre ricerche epidemiologiche non sono state in grado di confermare o meno la teoria del contagio tramite questi vettori animali.
Altre ricerche tedesche condotte sulle carcasse di cinghiale hanno suggerito che animali come le volpi sono in grado di spostare piccoli pezzi di carne di qualche metro rispetto alla carcassa; sebbene lo stesso potrebbe avvenire attraverso gli uccelli e sia davvero difficile escludere che questo possa avvenire nelle zone con carcasse di cinghiali infette, la probabilità che quel pezzo di carne possa essere introdotta all’interno di un allevamento è sempre comunque inferiore alla probabilità che sia un’attività umana a farlo.
Ecco perché, secondo gli autori della ricerca tedesca, la percezione del rischio che l’allevatore ha nei confronti di roditori e uccelli potrebbe essere esagerata. Va inoltre considerato che la tendenza a considerare pericolosi questi vettori animali può essere portavoce del tentativo di alleggerire le proprie responsabilità nell’apportare misure preventive in allevamento, dando colpe a fenomeni che non possono essere influenzati.
Per contro, è anche vero che le indagini epidemiologiche condotte negli allevamenti sede di focolaio non sono riuscite sempre a trovare la causa di ingresso del virus, e che forse, almeno in alcuni casi, anche questi vettori fino ad oggi poco considerati potrebbero avere il loro ruolo.
Quando la formazione è forzata, è meno efficace
Le fonti di informazioni possono essere diverse, ma su una cosa gli allevatori sono d’accordo: se la formazione è forzata, è meno efficace. Questo perché determina un sentimento di rigetto e impedisce il corretto trasferimento della conoscenza. Le informazioni sulla sicurezza devono essere volontarie e facilmente accessibili per gli allevatori.
Inoltre, quando si parla di comunicazione nel contesto della gestione del rischio di una malattia infettiva, la formazione più efficace è quella che mette in pratica le conoscenze direttamente sul campo. È per questo che la formazione è fatta attraverso i veterinari di campo è estremamente più efficace. Ecco perché sarebbe importante sostenere la formazione non soltanto verso l’allevatore, ma anche verso il veterinario aziendale.
Non solo, la formazione verso quest’ultimo non dovrebbe coinvolgere soltanto le nozioni teoriche relative alla biosicurezza, quanto dovrebbe vertere anche sulle modalità di comunicazione più efficaci, ovvero quelle che emettono al centro della formazione proprio l’allevatore.
«Noi non abbiamo recintato i silos del mangime per esempio. Non ne vedo l’utilità, io mica prendo il mangime dall’esterno. Questa è una misura che ho implementato soltanto perché me lo ha chiesto l’autorità», allevatore anonimo, Germania
La biosicurezza è difficile se la planimetria è complicata
Uno degli ostacoli più sentiti da parte degli allevatori, sicuramente è la stesura di un piano biosicurezza con una recinzione idonea nel caso di planimetrie particolarmente complicate. È il caso di allevamenti che sono cresciuti piano piano nel tempo, con i primi capannoni costruiti anche molti decenni fa e i successivi aggiunti soltanto dopo.
Soprattutto in questi casi, la percezione degli allevatori è che vi sia la forte difficoltà di pianificare le movimentazioni di tutti i veicoli sempre all’esterno della zona pulita. Mangime in più posizioni, piazzole di carico e scarico degli animali dislocate su più capannoni, vasche dei liquami tra diverse aree dell’allevamento sono tutti fattori di rischio che hanno la necessità di vedere transitare un veicolo all’interno della zona pulita.
Eppure, essendo il rischio percepito molto alto per questa condizione, molti allevatori tedeschi hanno fatto lo sforzo di implementare le misure per far sì che gli animali o gli operatori non calpestare mai la stessa strada percorsa anche da veicoli esterni.
«(…) il rischio che possiamo trasportare qualcosa (…) andando avanti e indietro dai campi con il trattore è alto. Sono rassegnato al fatto di dover convivere con questo rischio virgola non c’è nulla che io possa fare», allevatore anonimo, Germania.
Conclusioni
L’attitudine dell’allevatore e lo strumento legislativo sono i fattori che maggiormente riescono a influenzare il settore. Anche quando gli allevatori sono ben informati sulla peste suina africana e necessitano di misure di biosicurezza, informazioni aggiornate e un’offerta continua di consulenza sono essenziali per il corretto management del rischio per questa patologia. Il modo migliore per trasferire la conoscenza agli allevatori ed aumentarne la motivazione e la professionalità è certamente l’assistenza sul campo.
L’articolo è disponibile per i nostri abbonati sulla Rivista di Suinicoltura n. 9/2024
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